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li polso, e mi si saldano le coste; mi s’assottigliano gli articoli e mi s’ingrossano le giunture: ed in conclusione, quel che più mi tormenta, perchè mi s’indurano gli talloni e mi s’amolla il contrappeso, l’otricello de la cornamusa mi s’allunga ed il bordon s’accorta,

La mia Giunon di me non è gelosa,
La mia Giunon di me non ha più cura.

Del tuo Vulcano, lasciando gli altri dei da canto, voglio che consideri tu medesima. Quello, che con tanto vigore suole percuotere la salda incudine, che a li fragorosi schiassi, quali da l’ignivomo Etna uscivano a l’orizonte, Eco da le concavitadi del campano Vesuvio, e del sassoso Taburno, risponde — adesso dov'è la forza del mio fabro e tuo consorte? Non è ella spenta, non è ella spenta? Forse, che ha più nerbo da gonfiar i folli, per accendere il fuoco? Forse, ch’ha più lena d’alzar il gravoso martello, per battere l’infocato metallo? Tu ancora, mia sorella, se non credi ad altri, dimandane al tuo specchio e vedi, come per le rughe, come ti sono aggionte, e per li solchi, che l’aratro del tempo t’imprime ne la faccia, porgi giorno per giorno maggior difficultade al pittore, s’egli non vuol mentire, dovendoti ritrarre per il naturale. Ne le guancie ove ridendo formavi quelle tue fossette tanto gentili, doi centri, doi punti, in mezzo de le tanto vaghe pozzette, facendoti il riso, che imblandiva il mondo tutto giungere sette volte maggior grazia al volto, onde, come da gli occhi ancora, scherzando scoccava i tanto acuti e infocati strali Amore: adesso cominciando da gli angoli de la bocca, sino a la già

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