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Notte decima


Già in ogni parte gli stanchi animali per le diurne fatiche davano riposo alle travagliate membra, chi su le molli piume, chi su li duri ed aspri sassi, chi su le tenere erbette e chi sopra li fronzuti àlbori, quando la Signora con le sue damigelle uscì di camera e venne in sala, dove già erano raunati e compagni per udire il favoleggiare. E chiamato un servente, la Signora li comandò che portasse l’auro vaso; e, postovi dentro di cinque damigelle il nome, il primo che uscì fu di Lauretta; il secondo, di Arianna; il terzo, di Alteria; il quarto, di Eritrea; il quinto, di Cateruzza. Ma, prima che si cominciasse il favoleggiare, volse la Signora che, dopò fatte alcune danze, il Bembo cantasse una canzonetta; il quale, non potendosi scusare, così soavemente cominciò, tacendo ciascuno.

Mancato è quell'umor e quell’ardore,
  Che già mi diè possanza
  Di ragionar con voi, e in fin speranza
  Di conseguir l’ultimo don d’amore.
Già sento venir men omai la forza,
  Ed appressarmi a chi cercano tutti
  Vanamente fuggire;
  Che questi sono i delicati frutti
  Ch’escon di questa scorza,
  Dopo tante fatiche e gran martire,
  Per ultimo rimedio
  Di così lungo assedio,
  E in questo par che l’alma si conforte,
  Cangiar l’amara vita in dolce morte.

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