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Notte undecima.


Era già venuta la scura notte, madre delle mondane fatiche, e gli animali lassi prendevano riposo, quando l’amorevole e dolce compagnia, lasciato ogni tristo pensiero da canto, si ridusse al solito ridotto; e danzato alquanto con le damigelle secondo il solito costume, fu portato il vaso: di cui per sorte venne primamente di Fiordiana il nome, indi di Lionora, terzo di Diana, quarto d’Isabella, riservando l’ultimo luogo alla signora Vicenza. E fatti portar i lironi e accordare, la Signora ordinò che il Molino e il Trivigiano cantassero una canzone. I quali senza dimora così dissero:

Vostro vago sembiante,
  Nel qual i’ veggio la mia morte e vita,
  Seguirvi, donna mia, mi stringe e invita.
  Qual’è che in voi si specchi e fisso miri,
  Che dal capo alle piante
  D’un desio non s’infiammi e dolce gelo?
  E ben mille sospiri
  Non mandi fuor, da far ogni animante
  A pietà muover con ardente zelo,
  E per favor e per grazia del cielo,
  Anzi di lei sol dono.
  Trovar non pur mercè, ma sol perdono?

Fu di grandissimo contento a tutti la vaga e dolce cantilena dal Molino e dal Trivignano cantata; e fu di tanta virtù, che fece alquanto per dolcezza piangere

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