< Pagina:Sulla Ferrovia Perugina.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

PERUGINA 203

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Sulla Ferrovia Perugina.djvu{{padleft:5|3|0]]per centomila difensori della patria grande. Una ferrovia, collegata in molti modi ad ambo i mari e a tutte le terre d’Italia darà improvviso valore ai grani, agli olii, ai vini, i bestiami dei vostri campi, ai legnami delle selve apennine; darà un impeto di gioventù all’agricultura come nelle vergini terre delle colonie trasmarine.

Perchè codesta ferrovia non si farebbe come voi desiderate? Perchè far contrasto ai voti e ai voleri delle libere vostre popolazioni? Quando Garibaldi liberò il Mezzodì e il contracolpo delle sue vittorie ebbe reso irrefrenabile il moto dell’Umbria, si sarebbe potuto applicare ampiamente il principio della prima concessione aretina; incaricare degli studii, dei lavori e di misurate anticipazioni compagnie italiane, le quali non avessero lucri se non a misura delle opere compiute.

Ma sopra ogni cosa era necessario far d’un solo tratto tutte quante le grandi concessioni: intraprendere d’un colpo tutti gli studii e tutte le linee per compierle tutte ad un tempo nel più vicino termine possibile, salvo quelle opere avessero material necessità di maggior tempo. Un sistema di ferrovie, solamente nel simultaneo suo complesso, può avverare il sommo della sua efficacia, si per giovare alla popolazione, si per retribuire il capitale dei lavori. Tanto era trovare a tal uopo cento millioni come trovarne mille. I popoli, insieme col fausto grido della libertà e della fratellanza italica, avrebbero veduto scendere d’ogni parte una pioggia d’oro. Le fatiche larghe e largamente rimeritate avrebbero resa impossibile la miseria, impossibile il malcontento, assurdo ogni sogno di guerra civile. Al compiersi delle ferrovie, dovevano poi per necessità pullulare altre serie di lavori, principalmente d’alta agricultura. Garibaldi, mente aperta e anima benevola, accolse in Sicilia la feconda idea. Nei giorni di sue meraviglie, non ancora sconsacrate da una stampa indegna, gli giungevano offerte di denaro a patti trionfali. Ma non appena Cavour n’ebbe avviso, disse a’ suoi che assolutamente non si poteva lasciar fare agli avversarii si grandi cose; disfece e non fece; si mise a discrezione delle compagnie straniere. Intanto alla poesia dei volontarii succedeva la barbara prosa dei briganti; all’inveterata inerzia dei popoli s’aggiunse ogni sorta di miserie, di lutti e d’atrocità; il credito del novello regno precipitava; e Talabot voltava le spalle.

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.