< Pagina:Svevo - Senilità, 1927.djvu
Questa pagina è stata trascritta, formattata e riletta.

— 148 —

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Svevo - Senilità, 1927.djvu{{padleft:152|3|0]]a piegarla, e la faccia mite avrebbe perduta quella serenità dimostrata chissà con quale eroico sforzo. Egli avrebbe voluto prendere la sorella fra le braccia e incominciare a consolarla prima che fosse arrivato a lei il dolore. Ma non poteva. Senza arrossire non poteva dire in presenza sua neppure il nome dell’amico. Tra fratello e sorella c’era oramai una barriera: la colpa di Emilio. Egli non se ne accorgeva, e si riprometteva di poter arrivare alla sorella quando, certo, ella avrebbe cercato intorno a sè qualche appoggio. Allora egli non avrebbe avuto da far altro che aprire le proprie braccia. Ne era sicuro. Amalia era fatta come lui che quando soffriva s’appoggiava su tutte le persone che gli stavano accanto. Perciò egli lasciava ch’ella aspettasse il Balli.

Doveva essere un’aspettativa che Emilio non avrebbe sopportata; ci volle certo un grande eroismo per non chiedere nulla, all’infuori della solita domanda: — Il Balli non verrà? — C’era un bicchiere di più sulla tavola, preparato pel Balli; veniva riposto lentamente in un cantuccio dell’armadio che ad Amalia serviva di dispensa. Quel bicchiere veniva poi seguito dalla tazzina destinata al Balli pel caffè e, riposta anche questa, Amalia chiudeva l’armadio a chiave. Era calma, calma, ma molto lenta. Quando ella gli volgeva le spalle, egli osava guardarla fisso, e allora la sua fantasia gli faceva vedere dei segni di sofferenza in ogni singolo segno di debolezza fisica. Quelle spalle cadenti erano state sempre così?

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.