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Elena rimase al letto. Alla scarsa luce della candela Emilio s’avvide ch’ella piangeva. — Mi pare di essere al letto di mio figlio — disse ella accorgendosi che le sue lagrime erano state viste.

Amalia improvvisamente disse di sentirsi molto ma molto bene e domandò di mangiare. Il tempo non correva normalmente a quel letto per chi seguiva, viveva quel delirio. Ella accusava ad ogni istante un altro stato d’animo, o nuove avventure, e faceva passare con lei i suoi infermieri per delle fasi di cui lo svolgimento nella vita solita dura giorni e mesi.

La signora Elena — ricordando una prescrizione del medico — le preparò e offerse del caffè, che fu preso con voluttà. Subito il delirio la ricondusse al Balli. Soltanto per un osservatore superficiale quel delirio mancava di nesso. Le idee si mescolavano, una si sommergeva nell’altra, ma quando riappariva risultava esser proprio quella ch’era stata abbandonata. Ella aveva inventata quella sua rivale, Vittoria; l’aveva accolta con parole dolci, poi — come il Balli raccontò — fra le due donne s’era svolto un battibecco che al Balli aveva rivelato essere lui il pensiero dominante dell’ammalata. Ora Vittoria ritornava, Amalia la vedeva avvicinarsi e ne aveva orrore. — Io non le dirò nulla! Starò qui zitta, come se ella non ci fosse. Io non voglio niente, dunque mi lasci in pace. — Poi chiamò Emilio ad alta voce: — Tu che sei suo amico, digli tu ch’essa inventa tutto. Io non le feci nulla.

Il Balli credette di poterla calmare: — Senta,

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