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sotto agli occhi. La sua giubba da lavoro doveva essere stata di color bianco, era giallognola ora, salvo che le maniche, adoperate per nettare le penne, all’avambraccio del tutto nere. Lavorava in una stanzetta che aveva l’entrata sul piccolo corridoio come quella di Miceni. 

Miceni alzò il capo con un sorriso amichevole. Ballina veniva veduto sempre volentieri perché buffone, il buffone della banca. Quella sera non aveva voglia e si lamentava. Aveva lavorato fino allora nel suo ufficio di informazioni ed ora doveva lavorare dell’altro; per la sera poi non si sapeva se c’era da cena. Affettava maggiore miseria di quanta ne avesse. Fece una volta trasecolare Alfonso il quale, come Ballina stesso si esprimeva, era spugna, col raccontargli che alla fine del mese si nutriva di Emulsione Scott regalatagli da un medico suo parente. Aveva parenti benestanti che dovevano aiutarlo perché ne diceva sempre bene.

Entrò Sanneo come sempre correndo; lo seguiva Giacomo col volto da adolescente serio, un grande fascio di carte sulle braccia, al quale per eccesso di zelo teneva rivolto anche lo sguardo. 

Con accento ruvido Sanneo chiese a Ballina perché ancora non scrivesse. 

— Ma... — fece Ballina alzando le spalle — attendo di ricevere la lettera da copiarsi. 

— Non l’ha ancora ricevuta? — Rammentandosi ch’era Alfonso che doveva dargliela: — Non ne ha fatta ancora neppur una? 

Alfonso s’era alzato in piedi interdetto dallo sguardo bieco che gli veniva lanciato. Miceni rimanendo seduto osservò che neppur lui non ne aveva ancora finita alcuna. Sanneo voltò le spalle ad Alfonso, guardò la lettera di Miceni e lo pregò di consegnarla a Ballina non appena terminata. Uscí con la medesima fretta, preceduto da Ballina che voleva fargli vedere d’essere subito ritornato nella sua stanzetta, e seguito da Giacomo, impettito, che batteva i piedi per terra per dare importanza al suo piccolo passo. 

Pochi minuti dopo Miceni consegnò a Ballina la lettera per la copia e Alfonso udí dalla stanza vicina le bestem-

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