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che avesse obbedito alla prima chiamata. Irritata e quindi ben desta, Giuseppina si mise a gridare ch’era una vergogna che dopo una giornata in cui aveva molto lavorato non la si lasciasse dormire. Poi però fu spaventata. 

— È matto? — chiese a mezza voce vedendolo saltare per la stanza e gettarle raggomitolate le sue gonnelle. 

— Si levi immediatamente e faccia un tè, — le gridò furibondo, — altrimenti la getto fuori della porta. 

Ella si apprestò ad alzarsi senza mormorare piú oltre. 

L’affanno doloroso avuto dalla madre era diminuito; aveva ancora la respirazione celere ma non si lamentava piú. Qualche poco di sangue era ritornato a colorirle il volto. Cosí supina con le braccia inerti sembrava dormisse. Badando di non far rumore egli chiuse la finestra. Allorché venne Giuseppina col tè, volle impedirle di andare al letto, ma la signora Carolina la chiamò. Bevette qualche cucchiaiata di tè senz’aprire gli occhi e Giuseppina, vedendola calma, disse agramente: 

— Non era dunque tanto grave! 

— Esca! — gridò Alfonso indignato al vederla tanto indifferente. 

— Perché ti adiri tanto? — chiese la signora Carolina quando Giuseppina fu uscita. — Già non serve! Non capisce nulla! 

Ella dunque soffriva dell’imbecillità e indifferenza del suo contorno. 

Per altra mezz’ora ella non si mosse, ma quando egli già sperava che si fosse addormentata la sentí parlare. Era un pensare ad alta voce. 

— Non dicevo niente! — rispose all’interrogazione ch’egli le fece. Ma poi senza ch’egli altro domandasse, soggiunse: — Pensavo quale sciocchezza sia quella di fare dei piani per l’avvenire trovandosi nelle mie condizioni. 

Cercò d’incoraggiarla e mancando di migliori argomenti parlò della medicina prescrittale dal medico. Quella doveva darle la salute e, visto che non l’aveva mai presa regolarmente come si doveva, bisognava tentare. Fu il primo ad essere convinto dalle proprie parole. Infatti il piú forte dei suoi doveri, quello che gli altri avevano trascu-

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