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nare indietro ed egli certo non s’era contenuto come avrebbe dovuto. 

Non seppe come egli si fosse trovato in speditura, la stanza situata di faccia a quella di Cellani. Con la sua voce solida, sicura, ma non aggradevole, Starringer gli disse che si condoleva con lui per la morte della madre e gli strinse la mano quasi fino a schiacciargliela. Poi, non sapendo ch’era venuto giusto allora e che non aveva ancora cominciato a lavorare, gli chiese: 

— Ha posto lei questa lettera sul mio tavolo? 

— Sono in ufficio da cinque minuti, — rispose Alfonso. 

Ballina lo fermò sul piccolo corridoio dinanzi alla sua stanza. 

— Sono cose — gli disse — che accadono a tutti, è doloroso ma... — e non terminò che stringendogli fortemente la mano forse per il timore di dire qualche sciocchezza. 

Nella sua stanza si trovò per pochi minuti solo. Poi venne Alchieri a condolersi. Costui voleva anche sapere come la malattia della signora Carolina si fosse sviluppata, con quali sintomi; aveva udito dire ch’era morta di male di cuore, e, temendo fortemente per se di quello stesso male, voleva approfittare dell’occasione per farsi istruire. Alfonso rispose a monosillabi, e Alchieri attribuí questo laconismo al dolore e alla ripugnanza di parlare di quell’argomento. 

Alfonso invece aveva sempre fitto nella mente il medesimo pensiero: Esaminare quali cause potessero aver imposto a Cellani, persona buona e cortese, quel contegno villano. Non distrazione e non proprî dispiaceri perché, era stato facile avvedersene, quella freddezza e quella mancanza di riguardi erano volute.  

Egli s’era posto dinanzi al suo tavolo dall’aspetto immutato come l’aveva lasciato, nella casella di mezzo un foglio di carta, una lettera sbagliata che non si era potuto spedire, il calendario a destra con i giorni cancellati fino a quell’ultimo in cui Cellani con cortesia sorridente gli aveva offerto il permesso. 

Era odiato da Maller e da Cellani. Prima di abbando-

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