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piegati e i capi, in luglio il signor Cellani, il procuratore, ed in agosto a pena il signor Maller. 

Il primo a partire fu Sanneo il quale si prese quindici giorni di permesso mentre ne avrebbe avuto diritto a trenta. Fra gl’impiegati si asseriva che il signor Sanneo non sapesse restare per troppo lungo tempo privo del suo pane quotidiano, la posta e la polemica. 

Alfonso, per caso, presente, Sanneo diede le istruzioni a Miceni, il quale nella sua assenza doveva fungere da capo. La stanza di Sanneo era posta accanto a quella del signor Cellani, piú buia di questa perché un palazzo di faccia le toglieva la luce. Anche questa stanza, d’inverno aveva i tappeti, ma, salvo il tavolo di legno nero, largo e comodo, cedutogli dal procuratore che ne aveva preso un altro, i mobili erano identici a quelli degli altri impiegati: due armadi di legno dipinti rozzamente in giallo, una sedia di paglia e, di fianco all’unica finestra, un altro tavolo da cui era stato levato il palchetto. 

Sanneo, seduto, andava consegnando a Miceni che stava alla sua destra in piedi, lettera per lettera, un grosso pacco, indicandogli esattamente quanto avesse da fare a un dato giorno o dopo ricevuto altro scritto. Riponeva qualche lettera anche dopo data tutta la spiegazione osservando con una smorfia che c’era tempo per rispondere e che voleva farlo lui a suo tempo. Si capiva che gli seccava di abbandonare a Miceni tutta la sua gestione. 

Miceni ritornò nella sua stanza col capo ritto, la figurina tesa, il passo rigido. Si sedette e con un sorriso sprezzante mormorò: 

— Tante spiegazioni come se fossi da ieri alla banca. 

Ripensandoci rammentò dei particolari del suo colloquio con Sanneo e ne rise: 

— Vuoi scommettere che all’ultimo momento Sanneo si pente e rimane? 

Il piú vivo desiderio di Alfonso era di andarsene; non sapeva perciò ammettere che altri volesse rimanere. 

Poco dopo venne Sanneo ad avvisare che differiva la partenza al giorno appresso. Miceni guardò Alfonso, e quando uscí Sanneo esclamò con ira:

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