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in morte di carlo imbonati 383

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  Ond’io lieve men vado a mia salita,
  165Non li curando. Or dimmi, e non ti gravi,
  Se di te vero udii che la divina
  De le Muse armonia poco curasti.
  Sorrise alquanto, e rispondea: Qualunque
  Di chiaro esempio, o di veraci carte
  170Giovasse altrui, fu da me sempre avuto
  In onor sommo. E venerando il nome
  Fummi di lui, che ne le reggie primo
  l’orma stampò de l’italo coturno:
  E l’aureo manto lacerato ai grandi,
  175Mostrò lor piaghe, e vendicò gli umili;
  E di quel, che sul plettro immacolato
  Cantò per me: Torna a fiorir la rosa.
  Cui, di maestro a me poi fatto amico,
  Con reverente affetto ammirai sempre
  180Scola e palestra di virtù. Ma sdegno
  Mi fero i mille, che tu vedi un tanto
  Nome usurparsi, e portar seco in Pindo
  L’immondizia del trivio e l’arroganza
  E i vizj lor; che di perduta fama
  185Vedi, e di morto ingegno, un vergognoso
  Far di lodi mercato e di strapazzi.
  Stolti! Non ombra di possente amico,
  Nè lodator comprati avea quel sommo
  D’occhi cieco, e divin raggio di mente,
  190Che per la Grecia mendicò cantando.
  Solo d’Ascra venian le fide amiche
  Esulando con esso, e la mal certa
  Con le destre vocali orma reggendo:
  Cui poi, tolto a la terra, Argo ad Atene,
  195E Rodi a Smirna cittadin contende:
  E patria ei non conosce altra che il cielo.
  Ma voi, gran tempo ai mal lordati fogli
  Sopravissuti, oscura e disonesta
  Canizie attende. E tacque; e scosso il capo,
  200E sporto il labbro, amaramente il tôrse,
  Com’uom cui cosa appare ond’egli ha schifo.

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