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184 | iginia d'asti |
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SCENA VII.
ARNOLDO ed EVRARDO.
Arnoldo. Feroci!
Che favellate di virtù? A vicenda
Stimarvi grandi vi forzate e il grido
Di coscienza soffocar, che iniqui,
Ambizïosi, vili, empi v’appella:
Ma ben l’un l’altro tacito conosce,
E disprezza, ed abborre, e spegner brama!
Repubblica di sangue e di delitti,
Al tuo estremo sei giunta: il maggior bene
Che a sperare t’avanza ora è un tiranno!
SCENA VIII.
EVRARDO.
Evrardo.Ed io il sarò. — Che feci? Onde prostrato
Così mi sento? Troppo forse! troppo
È il sacrifizio! A tanto, no, le forze
Del vecchio Evrardo più non bastan. Padre
Alfin son io. Superbo! ecco: Natura
Com’ uom del volgo ti domò: menzogna!
Pentirmi? E tardi fòra. Ingrata figlia,
Condurmi a questo passo! E non osava
Rammentar pur di mia sconfitta il giorno?
Perfida!... Ma colpevole io la fingo
Onde scusarmi.... e orror di me sol sento.
Stromento or sia; saprai salvarla poscia:
Non avvilirti, a mezzo corso. — «Oh primo
Fra i ghibellini inver!» dicea Roffredo:
Giano fremea.... Sì, nella polve in breve
A’ piè del seggio mio strisceran tutti!