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214 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:219|3|0]]
Nel paterno castel, spettator farsi
Dello sterminio di Milan non vuole.»
Si, spettator farmene vo’; i ribelli
Chi più di me abborría? Chi più anelante
Di mirar nella polve i lor vessilli,
Il lor carroccio; le lor torri, e lieto
Cavalcando avventarmi ov’esse furo,
E dir: «Del mio destrïer l’ugna le pesta!»
Il Conte.Ascolta, figlio.
Ermanno. Cessa. Il furor mio
Tanto è maggior, quanto più grave è l’onta
Che sovra noi gettato ha quel fellone....
Che fratel dirmisi osa.
Il Conte. Il furor nostro
Contro all’empia città che per tant’anni
Trascinò Italia a ribellar, che tanti
Nostri congiunti trascinovvi, e un figlio,
Un figlio mio! dovuta era giustizia:
E il debito solvemmo. A' suoi stendardi
L’inperador di noi non ebbe un prode
Fra gl’itali baroni e più devoto
E più del proprio sangue in venti pugne
Largo effusore. E noto è a lui che il ferro
Non cessò di rotar mio antico braccio,
Finché da orrendi colpi io lacerato
Non caddi un giorno in sua difesa; — il giorno
Ch’essermi parve estremo, e stato il fòra
Se a me non accorrea quell’infelice....
Ch’io maledissi, e figlio ancor mostrossi.
Ermanno.
Colui cessiam di rammentar. Finiti
Sono e suoi vanti e sue minacce.
Il Conte. Ah dove
Chiuso avrà forse i mesti dì, o ramingo
E sconsolato li trascina? Il cielo
Severamente lo punì. Deh, flglio,
Tu sol mi resti: al padre tuo, cui turba
Ben non so qual presagio or di sventure,
Compiaci: resta al fianco mio.