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216 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:221|3|0]]
Sono di Dio i nemici.
Gismonda. Il suo gastigo
Allor paventerei, se in questo core
Pietà mai mi parlasse a pro degli empi
Ch’arsero la mia patria e sterminaro
La mia famiglia.
Il Conte. Il filïal rammarco
Che t’esacerba, a tua ferocia è scusa.
Ma tal ferocia, o Ermano, in tua consorte
Scusar dèi, non dividerla. Sui vinti
Indegna mai non fu pietà.
Ermano. Sui vinti
In cui superbia cessi e tradimento;
Non su costor, non su costor che proni
Pace imploraro altra fïata, e in petto
Superbia e tradimento era, e più audaci
A nuove pugne indi sorgeano. Addio.
Il Conte. Se vano dunque è di tuo padre il prego,
Che fermarti vorrebbe, un altro prego
Non rigettar: comando siati. In ceppi
Scontrar potresti forse o in disperata
Battaglia ancor quell’infelice.... In lui
Non mirar se superbia e tradimento
Covin perenni. Ah, chi di lui più iniquo?
Chi più ostinato? il so; più non ispero
Che si ravvegga. Nondimen ricorda
Che fratel gli nascesti. Alta finora
Fu grazia del Signor, che in pugna mai
In lui non t’imbattevi; e se accadesse,
Scansalo deh!
Ermano. Scansar chi m’assalisse?
Il Conte. Altr’uom non mai; bensì il fratel. Nel sangue
D’un fratel non intingasi tua destra.
E se.... in periglio il vedi.... e da te penda
Salvar suoi giorni, salvali. E se nudo,
Mendico, fuggitivo.... ah tu d’aita
Generoso gli sii!
Ermano. Padre, obliasti