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218 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:223|3|0]]
Che tutti uscisser dalle mura, e maschi
E femmine e fanciulli, e quanto seco
Portar potean, la miserevol turba
Obbedì urlando: «Ahi; ci tradì Alessandro
Che a Milan gloria predicea!» Ma antichi
Sacerdoti e guerrieri allor fur visti
Che rimaner voleano entro le mura
Esclamando: «É infallibile promessa!
A mantenerla oprerà Dio portenti!»
E i congiunti e gli amici a que’vegliardi
Facean più vïolenza, e trascinarli
Era lor d’uopo; e udiano empi chiamarsi,
Di poca fè, codardi. E molti furo
Che, rigettata ogni pietà, restaro
Ne’ tetti lor, ponendo in Dio fidanza
Che co’ prodigi il popol suo salvasse.
Ermano. Insensati!
Il Conte. E magnanimi!
Ricciardo. Que’tetti
Crollaron poscia e a’ miseri fur tomba!
Il Conte. Sperando non giacea fuor delle mura
L’espulsa moltitudine? Qui il grido
Venne, che forse con minacce solo
Volesse Federigo umilïarla.
Ricciardo. Più dì nutrian quella speranza i folli
Dalle mura cacciati, e udiansi molti
Dir: «Federigo sterminar non puote
Questa città; vaticinolle gloria
Quell’Alessandro che in ciel legge i fati.»
Il Conte. Oh quanta fede, o illusi!
Ricciardo. Un largo varco,
Diroccate le mura, a Federigo
E al trïonfante esercito fu schiuso,
Che la città spogliaro. Il derelitto
Popolo ancor dicea: «Dio negli averi
Or ne punì, ma porrà quindi in core
Del vincitor, di renderci alle stanze
De’nostri padri.»