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220 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:225|3|0]]
Solo atterrar, se ciò che strugger dèssi
Il popol è?
Ermano. T’acqueta. Ove il monarca
Deboli cingan consiglieri, a lui
Il forte detto recherò: «Distrutta
Non è Milan, finchè i suoi figli han vita:
Strage sen faccia, o per le vaste selve
Disseminati di Germania e schiavi
Lascin, pari al Giudeo, povera e fiacca
Prole che attesti la paterna infamia.»
Il Conte. Nulla a dirmi, o Ricciardo, hai tu del reo
Che tanti affanni mi costò?
Ricciardo. Il Signore....
T’ha vendicato.
Il Conte. Egli....
Ricciardo È sotterra.
Il Conte. Oh figlio,
Figlio mio sciagurato! a che ti trasse
Il tuo superbo inobbedir! - caduto!
E dove? e quando? e senza alcuno, forse,
Che raccogliesse il suo sospir, che a lui
I rimorsi temprasse, e gli dicesse:
«L’imprecar di tuo padre era giustizia,
Odio non era; e piangerà all’annuncio
Della tua morte, e implorerà da Dio
De’tuoi falli il perdono!» Oh! dimmi, come
Perì?
Ricciardo. Quando l’assedio ebbe a furore
Suscitato i famelici, in Milano
Discordia orrenda gli animi divise,
E nella turba prevalea il partito
Di sottoporsi al vincitor. Negaro
Di consentire i magistrati. Infrante
Venner lor sedi; alcuni d’essi in brani
Fur fatti, e gli altri all’intimar del volgo
Cessero allor. Fra i morti era il canuto
Iacopo Della Torre.
Il Conte. Il mio nemico!