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232 | gismonda da mendrisio |
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Ogni gentil moto del core è in noi!
Vanne a lei. Dille che l’aspetto, dille
Che del suo genitor gli avvelenati
Detti che denigravanmi eran falsi;
Dille che, se Ariberto in me severo
Ebbe condannatore, i suoi delitti,
L’irreverenza, la rivolta, il turpe
Affratellarsi con nemici eterni
Della mia casa io condannai; giustizia,
Onor dettava la condanna; — e il core
Grondava sangue; e a tutti ascose in copia
Nella secreta mia stanza io spargeva
Amarissime lagrime, e pregava
Per quel figlio perverso, e per la donna
Che, il voler mio spregiando, ei nuora diemmi,
E pei lor frutti sciagurati. — E s’ella....
Odi.... abbattuti assai dall’infortunio
Gli spirti avesse, mie parole irate
Contro suo padre tacile; anzi.... a lei
Di, ch’appo il conte di Mendrisio il nome
Già esecrato di Iacopo, non mai
Ella udrà mentovarsi, nè le stragi
Che la sua dalla mia casa han diviso,
Nè dell’estinto sposo suo le colpe.
Dille.... Che fai? Perché prorompi in questi
Singhiozzi?
Gabriella. Io sono Gabriella!
Il Conte. Oh cielo!
Prestigio è questo? Chi sei tu?
Gabriella. La moglie
Del tuo Ariberto.
Il Conte. E sarà ver? Deh, sorgi!
Dunque — oh destin! — del mio nemico io stringo
Al sen la figlia?.... Ah, senza odio la stringo!
Ma ancor sei madre, pur dicevi: il tristo
Orfanello dov’è?
Gabriella. Là in quel tugurio
Seco lo trasse.... uom che a’tuoi piè gettarsi