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236 | gismonda da mendrisio |
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SCENA II.
ARIBERTO, IL CONTE E DETTA.
Ariberto. Deh padre,
Lasciami: ecco Gismonda. A me s’aspetta
Placarla, io tanto l’oltraggiai!
SCENA III.
ARIBERTO E GISMONDA
Gismonda. Chi veggo?
Ariberto.Donna....
Gismonda. Che ardisci?...
Ariberto. Di te in cerca il padre
E Gabriella ed io givam. Tuo sdegno
Nostre gioie avvelena; io più di tutti
Profondamente men rammarco. — Allora
Che a’guardi miei la milanese insegna
L’unica parve cui potessi il brando
Nobilmente sacrar, zelo soverchio
Trassemi a offenderer la tua stirpe, e avvolsi
Te ingiustamente nell’offesa. Or piaccia
A te scusar magnanima un furore
Che giovane commisi, uomo condanno.
Gismonda.Qual? non t’intendo. Il parteggiar pe’sogni
De’ribellanti?
Ariberto. No; arrossir non posso
D’aver seguito, ove il credetti, il giusto.
Bensì d’averti allor, men ch’io dovea,
Onoranza mostrato. Ed onoranza
Pur ti serbai nel core; e il dì ch’Ermano
Riparò il fallir mio, te a nostro padre
Nuora traendo, io consolato dissi:
«Ella sarà felice, e ad Ariberto
perdonerà.» — Se timido, se scarso
È il detto mio, non adirarti. Al labbro
Di chi fu reo, com’io fui teco, e pieno