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238 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:243|3|0]]
Che tante cose cancellò, i passati
Torti non chieder d’Ariberto.
Gismonda. I torti
Tuoi cancellar tempo non può.
Ariberto. Ammendati
In parte fur.
Gismonda. Da te?
Ariberto. No; dagli eventi
Che ti fean moglie al fratel mio; che tutti
Ad altre cure, ad altri sacri affetti
A poco a poco ne avvezzò.
Gismonda. Avvezzarmi
Ad esecrarti potev’io: non posso
A sostener l’aspetto tuo, l’aspetto
Di colei che di mia stirpe a’nemici
Figlia nascea; di colei ch’ami, e ardisci
Suora propormi. Anzi che al seno accòrre
Tal serpe mai, con queste mani io stessa....
Trema! la mente mia celar non degno!...
Vo’soffocarla.
Ariberto. Oh atroce! eppur sovente
Proprio de’forti spirti è nobil varco
Dal furor più tremendo a generosa
Salda amistà. Più d’una volta al dolce
Sogno m’abbandonai, che se a te noto
Di Gabriella un dì fosse il modesto
Animo schietto e la pietà, odïarla
Più non potresti, e ch’ella ed io a Gismonda,
Al suo interceder, al suo esempio andremmo
Di domestica pace debitori.
Gismonda.Pace? pace osi chiedermi? Chi pace
A me togliea?
Ariberto. Gismonda.... io.... tue parole....
Gismonda.Che? mie parole? e creder osi...
Ariberto. Sdegno
Orrendo ardeati: in te ragion lo spenga.
Gismonda.Spegnerlo? E foco mortal forse è questo?
Chi di spegnerlo mai balia mi tolse? —