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242 | gismonda da mendrisio |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:247|3|0]]
Che val contender di diritti? Ognuna
delle due parti da tant’anni grida
«Meco sta Dio!» Vanta fautore ognuna
Un romano pontefice; rimbrotta
All’altra ognuna atrocità e perfidie.
Sciorran la lite i posteri, ne forse
Sciorla sapran, se non com’or, qual l’una
Parte, qual l’altra condannando.
Ariberto. E i savi
Compiangendole entrambe.
Il Conte. Ed in entrambe
Delitti ravvisando a virtù misti.
Ermano. Dio la lite sciogliea: Milano è polve.
Ariberto. Dio dalla polve suscitar può vita.
Ermano. Indomita la speme è de’superbi.
E tu serbala, iniquo; il dì vagheggia
Che Milano risorga, il dì che oltraggio
Drizzar tu possa, d’umil prego invece,
E al padre novamente ed al fratello
Minacciar ferri e morte. Oggi frattanto
Qui non tu signoreggi, e ogni minaccia
Risibil suona.
Ariberto. Di Mendrisio il conte
Qui signoreggia, il padre mio, cui pari
Sudditi sono i figli suoi.
Ermano. Che? pari
Sudditi sono un figlio obbedïente
E un traditor?
Il Conte. Tacete, io ve l’impongo!
Soverchio orgoglio è in ambo voi. Temprarlo
In te, Ariberto, dee la rimembranza
De’falli tuoi: temprarlo dee in Ermano
La rimembranza che dai veri prodi
Vietata è ogni villana ira sui vinti.
Temprarla in ambo dee la rimembranza
Dell’antica amistà, del comun sangue.
Ermano. Dover mi spinge.
Il Conte. Obbediente figlio