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atto quarto. — sc. iv. | 251 |
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Al volante pugnale.
Gismonda. Oh ciel!
Gabriella. Gismonda,
Di quelle vigorose alme tremende
Tu sei che all’odio corrono se offese,
Ma la cui vigoria move da conscia
Nobil natura. E queste son quell’alme
Che a virtù più son atte, e più son atte
Quindi al perdono.
Gismonda. Tu.... Ariberto... il figlio....
Gabriella.La tua pietà, no, non reprimer. — Vieni,
Accarezzala, o figlio; ella è turbata
Da pensieri angosciosi. Oh, dille: «Io mondo
Son delle colpe onde il tuo spirto freme.» —
Partir tu vuoi, Gismonda. Odimi, arresta.
Una sventura il secol nostro avvolse
Che inimicò città e città, fratelli
Contro fratelli; e scevra di delitto
Non lasciò forse alcuna sponda. Intanto
L’innocente che nasce in que’furori
Alza pe’rei sua debil voce, e Iddio
Vuol che s’ascolti. E venir dee quell’ora
Che gli offesi si dicano a vicenda:
«Struggerem noi per vendicarci intera
La nostra stirpe?»
Gismonda. Vïolenza è questa.
Basta, lasciami.
Gabriella. Il ciel madre ti faccia,
E i figli nostri obliin l’ire dei padri;
E non accada che tu ed io veggiamo
Que’figli, un dì, l’un contro all’altro i ferri
Volgere scellerati e trucidarsi.
Gismonda.Non vedi tu che da contrari affetti,
Da dolori indicibili angosciata
È colei che tu supplichi? Infelice
Non sono io più di te? Me benedetta
Non chiamerei, se potess’io abbracciarti
E averti suora? Ma.... non posso; io t’odio!