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atto quinto. — sc. vii. 263

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Da te il racquisto: il ciel ti dia rimerto,
E rallenti il flagel che meritato
Han tuoi delitti.
Gismonda.                                   Ognun m’insulta, ognuno,
Pur s’una lode è astretto darmi, orrore
Sente di me. Superba! hai tu nel fondo
Letto de’ cuori e misurato i gradi
Delle lor colpe, e le sciagure, e i casi
Inevitati che ad errar talvolta
Trascinan tal ch’esser non volle iniquo?
Con qual dritto mi spregi? Ov’è quel santo
Pudor che vanti? Orgoglio è il tuo, villana
Presunzione di virtù. Un amato
Perduto avevi tu com’io? Gran lotta
Sostenesti com’io per obliarlo?
Per costringere il cor d’amarne un altro,
Non mai potendo, e il primo ognora amando?
Or che sai tu, s’io quella vil, quell’empia,
Che la tua farisaica ira percuote,
Tutto quel ch’era in poter mio non feci,
Affin d’adempier miei doveri, e s’io
Forze maggiori delle tue non ebbi,
Sebben di te men pura e men felice,
E men plaudente a me medesma?
Gabriella.                                                                 Ignoro
Quai sien tue scuse al folle amor; più ignoro
Come effetto d’amor sia collegarsi
Cogl’inimici dell’amato e addurli
Perfidamente nel suo tetto. O forse
Perchè dopo il misfatto eranti sprone
I cocenti rimorsi a confessarlo,
Quel tradimento non sarà misfatto?
Non misfatto esser causa delle angosce
Di tutti i nostri cuori? Ascolta. Ahi! ferve
Pugna per ogni dove! E chi la mosse?
Gismonda.Chi?
Il Conte.          Cessa, Gabriella. Ahimè! un sospetto
Doloroso mi prese: ella salvarci

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