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468 manfredo

[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Tragedie (Pellico).djvu{{padleft:473|3|0]]l’unica compagna dello sue corse o delle sue veglie,— colei che di tutte le cose terreno che vissero, parve essere la sola ch’egli amasse, — come egli infatti pei vincoli di sangue doveva amarla, la signora Astarte, la sua.... — Zitto; chi viene? (Entra l’Abate.)

Abate. Dov’è il vostro padrone?

Herman. Là nella torre.

Abate. Ho bisogno di parlargli.

Manuele. È impossibile; egli è ritiratissimo, e nessuno vi dev’essere introdotto.

Abate. Assumo sopra me la colpa, se v’è colpa, — ma conviene che io lo veda.

Herman. Tu l’hai già veduto stasera una volta.

Abate. Herman! te l’impongo, picchia, ed informa il conte della mia visita.

Herman. Non osiamo.

Abate. Dovrò dunque annunziarmi da me stesso.

Manuele. Reverendo padre, fermati — te ne prego, t’arresta.

Abate. Perchè?

Manuele. Prosieguirai, se vuoi, il tuo cammino, ma lascia ch’io ti parli. (Partono.)


SCENA IV.

Interno della torre.

MANFREDO solo.

Le stelle splendono; la luna è sulla cima delle brillanti nevose montagne. Oh magnificenza! io veglio colla natura; la faccia della notte m’è stata sempre più famigliare che quella degli uomini; e nella sua stellata ombra, di un’amabilità fosca e solitaria, ho imparato il linguaggio d’un altro mondo. Mi sovviene che nella mia gioventù, quand’io viaggiava,— in una notte simile a questa, io stava nelle mura del Coliseo, in mezzo alle principali reliquie dell’onnipossente Roma; gli alberi che crescevano lungo gl’infranti archi, ondeggiavano tetri nella cerulea mezzanotte, e le stelle splendevano attraverso

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