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e gli altri modi di conversare l’uno con l’altro. E questo tale ufficio all’amicizia appartiensi, imperocchè l’elezione del vivere insieme non è altro che amicizia. E per tanto il bene vivere fine della città, e queste altre cose dette sono mezzo per conseguirlo. E la città è una compagnia fatta nelle famiglie, e nei borghi; una compagnia dico di vita perfetta, e per sè stessa sufficiente, e questo è, come io ho detto, il vivere con felicità e con virtù. Debbesi adunche constituire la civile compagnia per cagione di fare azioni oneste e non per cagione di vivere insieme.

Onde tutti quegli che più giovano in questa civile compagnia, questi più debbone partecipare nel governo della città di quegli, che per via di libertà, o di sangue sono pari a loro, o maggiori, ma ben sono loro inferiori nella virtù civile: e più di quegli

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che gli avanzano nelle ricchezze, ma che nelle virtù sono da loro avanzati. E per li detti nostri è manifesto, che tutti quegli, che contendono nelle città, affermano di volere un certo che di giustizia.


Ma egli è ben dubbio di chi debba essere padrone nelle città, e il popolo, dico, o li ricchi, o li buoni, o un solo, che sia sopra di tutti gli altri per virtù eccellente, o il tiranno. E tutte le cose dette, pare che abbino non picciola difficoltà. Imperocchè se li poveri, per essere più di numero, si distribuissino i beni de’ ricchi, questa cosa non sarebbe ingiusta: perchè ella parrebbe fatta giustamente a chi fosse padrone del governo. Ma ella sarebbe (a dire il vero) la maggiore ingiustizia, che sia al mondo. E

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