< Pagina:Trattato de' governi.djvu
Questa pagina è ancora da trascrivere o è incompleta.

E il prego d’Agamennone

Avess’io dieci tai nel mio consiglio.

Sono ancora oggi i magistrati padroni di giudicare certe cose, siccome avviene nel giudice nei casi, che non può determinare la legge; come se la legge non potesse ben comandare, nè ben giudicare; che dove la legge può arrivare, nessuno è che quivi dubiti punto, ch’ella non abbia ad esser padrona.

Ma perchè e’ può essere, che certe cose sieno state da lei tralasciate, e certe non è possibile che ell’abbia compreso, però avviene questo dubbio; e però si va cercando s’egli è meglio, ch’ei comandino l’ottime leggi, o l’uomo che sia ottimo: perchè e’ non è possibile por le leggi di quelle cose che caggiono sotto il consiglio. Non si niega pertanto, che ei non sia necessario, che di tai cose non debba l’uomo essere giudice, ma bene si niega, che ei debba essere un solo: ed è me’ che e’ sieno molti, perchè ciascuno, che è in magistrato, giudica bene quando egli è ammaestrato dalla legge.

E forse qui parrebbe disconvenevole a dirsi, che un vedesse meglio con due occhî, e meglio udisse con due orecchî, e con due piedi, e con due mani meglio operasse, che non farebbono molti con più membri dei racconti. Conciossiachè e’ si vegga essere messo in costume dai monarchi di farsi più occhî, più orecchî, più mani e più piedi; facendosi compagni del principato quei che sono di loro e di quel principato amici. Imperocchè quegli, che non fussino amici, farebbono quello che volesse il principe; e quegli, che li sono amici, farebbono quello che vuole il principe, e il principato: imperocchè l’amico è pari, ed è simile. Onde chi stima, che questi

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.