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226 il sortilegio.

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Stanchi alla fine, e come accade spesso
  D’uno che al gioco giochi anco il cervello,
  Che invece di pigliarla con sè stesso
  E’ se la piglia con questo e con quello,
  Un dì che il Rivendugliolo avea messo
  Fuori i fagotti e il solito zimbello,
  Da sei gli sono addosso, e con molt’arte
  L’attorniano, e lo traggono in disparte.

E dopo averlo strapazzato, e dette
  Cose del fatto suo proprio da chiodi,
  Gl’intuonaron minaccie maledette,
  E che voleano il terno in tutti i modi.
  Messa lì su quel subito alle strette
  La volpe che maestra era di frodi,
  Facendo l’imbrogliato e il mentecatto,
  Te gli abbonì che non parve suo fatto.

Poi protestando, che del trattamento
  Non facea caso e lo mandava a monte,
  Accennò roba, parlò d’un portento,
  La prese larga, te li tenne in ponte,
  E finse di raccogliersi un momento,
  E chiuse gli occhi, e si fregò la fronte,
  E disse: attenti, che non diate poi
  A me la colpa che si spetta a voi.

Bisognerebbe, quando il gallo canta
  Sull’alba, o appena il sole è andato sotto,
  Novanta ceci secchi, sulla pianta
  Côrre, senz’esser visti o farne motto;
  E dall’uno giù giù fino al novanta
  Scriverci sopra i numeri del Lotto,
  Con una tinta che non si cancella,
  Fatta di pece e d’unto di padella.

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