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il sortilegio. 227

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Affilare un coltello, essere accorto
  Che chi l’affila non tocchi nessuno;
  E un corpo maschio, defunto di corto,
  Scavar di notte, in giorno di digiuno;
  E tagliata e vuotata a questo morto
  Ben ben la testa, dentro a uno a uno
  Mettere i ceci, stando inginocchiati,
  Tre volte scossi e tre volte contati.

Avere un pentolone, e a queste gore
  Qua sotto, empirlo di quell’acqua gialla,
  E bollirci quel capo, e che di fuore
  Non vada l’acqua, Dio guardi a versalla!
  A mala pena spiccato il bollore,
  Da’ primi ceci che verranno a galla
  Avrete il terno; e se dico bugia,
  Che non possa salvar l’anima mia.

Quel dettar tutto sì minutamente,
  Quel morto, quella pentola, e il gran guaio
  D’aver bisogno, fece a quella gente
  Girar la testa come un arcolaio;
  E creduto per fede agevolmente
  E rimandato libero il Merciaio,
  Stillano il modo di venire a capo
  D’aver in mano, e di bollir quel capo.

Di fresco era lassù morto il Curato,
  E l’aveano sepolto dirimpetto
  Alla porta di Chiesa, ove il sacrato
  Ha una lapide antica a questo effetto.
  Quel Prete, per disgrazia, infarinato
  D’Algebra, se di tempo un ritaglietto
  Gli concedea la Cura di montagna,
  Era sempre a raspar sulla lavagna.

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