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230 il sortilegio.

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L’aria imbrunì, suonò l’Avemmaria,
  E sorta in piè la donna, a’ figlioletti
  Incominciò malinconica e pia
  A suggerir garrendo i sacri detti:
  Maso, fermo sull’uscio, o non udia
  La squilla, vaneggiando in altri obietti;
  O se l’udì, non ebbe in quella sera
  Nè parola nè cuor per la preghiera.

Notò la donna l’atto, e avendo piena
  Già già la testa di mille paure,
  Dentro se ne sentì crescer la pena,
  Ma la represse, e attese ad altre cure.
  E acceso il lume e il foco, e dato cena
  E messe a letto quelle creature,
  Ritrovò Maso come addormentato,
  Col capo sulla mensa abbandonato.

Volea parlar, ma non le dette il cuore
  D’aprir la bocca, e ste’ soprappensiero,
  E quello immaginar pien di dolore
  Le cose più che mai le volse in nero;
  Poi, come fa chi dubbia e sente amore,
  Che cerca e teme di sapere il vero,
  Soavemente a lui che amava tanto
  Si volse, e disse con voce di pianto:

Maso, per carità, parla, che hai?
  Via, parla, non mi dar questi spaventi:
  Così confuso non t’ho visto mai;
  Oh, Maso mio, perchè non mi contenti?
  Se non lo fai per me, se non lo fai,
  Fallo per que’ tre poveri innocenti,
  Che son di là che dormono: e non sanno
  Lo snaturato di padre che hanno.

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