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230 | il sortilegio. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Versi di Giuseppe Giusti.djvu{{padleft:254|3|0]]
L’aria imbrunì, suonò l’Avemmaria,
E sorta in piè la donna, a’ figlioletti
Incominciò malinconica e pia
A suggerir garrendo i sacri detti:
Maso, fermo sull’uscio, o non udia
La squilla, vaneggiando in altri obietti;
O se l’udì, non ebbe in quella sera
Nè parola nè cuor per la preghiera.
Notò la donna l’atto, e avendo piena
Già già la testa di mille paure,
Dentro se ne sentì crescer la pena,
Ma la represse, e attese ad altre cure.
E acceso il lume e il foco, e dato cena
E messe a letto quelle creature,
Ritrovò Maso come addormentato,
Col capo sulla mensa abbandonato.
Volea parlar, ma non le dette il cuore
D’aprir la bocca, e ste’ soprappensiero,
E quello immaginar pien di dolore
Le cose più che mai le volse in nero;
Poi, come fa chi dubbia e sente amore,
Che cerca e teme di sapere il vero,
Soavemente a lui che amava tanto
Si volse, e disse con voce di pianto:
Maso, per carità, parla, che hai?
Via, parla, non mi dar questi spaventi:
Così confuso non t’ho visto mai;
Oh, Maso mio, perchè non mi contenti?
Se non lo fai per me, se non lo fai,
Fallo per que’ tre poveri innocenti,
Che son di là che dormono: e non sanno
Lo snaturato di padre che hanno.