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342 | alla memoria di carlo falugi. |
[[Categoria:Pagine che usano RigaIntestazione|Versi di Giuseppe Giusti.djvu{{padleft:366|3|0]]
E d’infausto cipresso il crin ricinti,
Corron gli amici del perduto all’urna
A tributar le lacrime e i giacinti.
E la tenera sposa taciturna
Cova la doglia acerba, che l’istiga
L’odïata a fuggir luce diurna.
E di debito pianto il volto riga,
O splenda in cielo la benigna lampa,
O Febo asconda in mar la sua quadriga.
Così, diletto Carlo, in noi si stampa
Tua sospirata imago, e del desio
Degli amplessi cessati ognuno avvampa.
Ond’è che intento a mesto ufficio e pio
Muovesi di compagni un ordin denso
In bruna veste alla magion di Dio.
Ed implora a te requie, ed all’Immenso
Offre voti che al ciel ratti sen vanno,
Siccome nube candida d’incenso.
Gli ode placato il Nume, e il duro affanno
Dell’orbata famiglia appoco appoco
Calma pietoso, e ne conforta il danno.
O Voi, che offende in questo basso loco
Cura molesta, o morbo grave e lento,
Sprezzate di Fortuna il vario gioco.
Questo Garzone innanzi tempo spento
V’additi che quaggiù vana è la speme,
Ed ombra che dileguasi il contento.
Per lui già già fioría l’eletto seme
Che dei più nella mente Inerzia cela;
In lui grazia e virtù cresceano insieme.
Ma di repente s’infranse la vela
Che prometter parea sì lieto corso;
Nè valse all’uopo la comun querela.