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Poruk. (con giubilo)Fanciulla, orsù, fa corc,
Vedi, in Urvasi alfin torna il vigore:

  Come la notte se al chiaror lunare
  Dal tenebror si vede abbandonare,
  Come fiamma di foco allor che folta
  Nube di fumo infrange.
  La gentil ninfa al suo deliquio, è tolta:
  Del pari awien che il Gange
  Torbido allo scrosciar de le correnti,
  Chiaro, in calma, e diafano diventi.

Citralèca.Su, fa coraggio! Disperati alfine
Son quei Danàvi. Or essi,
Gl'insidiatori degli dei, disfatti
Furon dal pio sovrano
Che ha oguor pietà degl* infelici oppressi I
Urvàsi (aprendo gli occhi)Oh! Che? Dal sommo dio
Indra, che di colui l’oltraggio scorse,
Aita forse ebb’io?
Citralèca.Non Indra venne in tuo soccorso, amica;
Pururàvasa fu, questo Ragiàrsi
Ch’è per indole inver simile ad Indra!
Urvasi (guardando il re, tra sè)Pur, da la trista lotta
Con quel Danàvo, nn bene
Alfine a me ne viene.
Purur. (guardando Urvàsi, tra sè) Le Apsàrase vezzose,
Che Naràyano il pio
Voleano un di coi vezzi lor tentare,
Ben a ragion fùr da vergogna vinte
A tanta leggiadria !
Prole d’asceta, ah no, costei non pare;
E, per mia fé’, com’esserlo potria?

  Fu Ciàndro, il dio ch’è di beltà datore,
  Che in concepir costei vita le diede ?
  Quei che l’essenza del piacer possiede
  Il dio Madano, ower l’Aprile in fiore ?
  E come avria potuto, uom vecchio e pio
  Cui i sacri libri han l’alma irrigidita,
  Cui privi i sensi son d’ogni desio,
  Ad una forma si gentil dar vita?

UrvàsiO Citralèca, e dove è mai la schiera
Delle compagne nostre?
CitralecaChiedilo al pio sovrano
Che fa seenro ognun col suo valore.
PururàvasaSu, guardale, o vezzosa:
Trepidanti or son tutte in gran dolore.

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