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Dio l'ha voluto! | ► |
PREFAZIONE.
Ovunque si trovi uno scrittore, ovunque viva un poeta, si ode, ogni tanto, un grido sgorgare, si ode un mormorio dolente prolungarsi: Scrivere? Che cosa, scrivere? Che cosa osare, mai, di scrivere, versi d’amore, prose di romanzo? Mentre la guerra arde, divampa, distrugge, come raccogliersi per comporre delle povere piccole storie, per misurare i ritmi di alcuni versetti? Come chiudere le finestre dell’anima al rombo terribile, per ascoltare l’antica voce interiore, che ci parlava senza labbra? Mentre la Falciatrice crudele recide, recide, a migliaia, i giovini palpitanti di un fresco sangue, gli uomini temprati nelle virili energie, e le terre non hanno che cadaveri, come osar di evocare i vaghi, i vani fantasmi dell’arte e della poesia, per dar loro una vita ideale, sulle carte? Sterile fatica: inutile fatica.... E in questo lamento d’impotenza artistica, che le anime esalano, si nasconde tutto il fremito lungo di angoscia, che quanti hanno tenuto alto il loro posto, nelle lettere di ogni paese in guerra, provano di vincere e non riescono a vincere: vi si nasconde, quest’angoscia, con quel l’intimo pudore sentimentale, di cui ogni scrittore circonda i moti della sua coscienza. O voi che tante volte, ingiustamente, iniquamente, accusaste gli scrittori e i poeti di un gelido e superbo egoismo, voi, ritirate la perfida accusa! Tanti di costoro, sui campi flagellati dalla mitraglia, dettero la loro ricca vita che era già, che sarebbe stata ancora, splendida creatrice di opere d’arte: tanti e tanti, di costoro, combattono sulle frontiere disputate, sui territorii invasi, dimentichi di ogni altro loro sogno di gloria: e quelli che gli anni, che il sesso o la sorte lasciarono nelle loro case solinghe, colà, essi non sanno più di essere scrittori e poeti, essi sanno solo di essere figliuoli di una patria in guerra, e hanno sofferto e sperano, e continuano a soffrire e a sperare, con nobiltà, con umiltà, come qualsiasi altro ignoto cittadino della loro nazione, sia servo della gleba od operaio di officina.
Ma l’insaziata, l’insaziabile folla, dimanda allo scrittore: «e perchè allora, non esaltare questo intelletto col dolore, vergando delle pagine immortali, sulla guerra, componendo un magnifico poema, sulla guerra? Quale più impetuosa ispirazione? Quale Musa più imperiosa?» E il pallido poeta e lo smorto scrittore sentono, più che mai, l’amarezza della loro impotenza d’arte. Dove, dove sono le parole possenti che sien capaci di comprendere, di racchiudere, di rendere questa lotta titanica di popoli intieri, scatenati l’uno contro l’altro ebbri di vita ed ebbri di morte? Dove, dove sono le vaste parole colorite, smaglianti, per descrivere quest’oceano di sangue senza sponde? Dove, dove è il verbo sonoro e cupo e fischiante e lacerante insieme, che possa rendere ciò che è un colpo di cannone da quattrocentoventi? Esiste la guerra: ma è una realtà senza parole: ma è una tragedia senza poeta. E le scrittrici, le poetesse? D’un tratto, esse sono balzate fuori dal forte, dal soave sogno che tenea la loro anima, e ogni visione della loro mente è stata abolita, e una freccia mortale ha trafitto il loro cuore, lethalis arundo. Tutte sono ridiventate delle donne, delle semplici, oscure donne, nella loro sussultante sensibilità, nella loro tenerezza sanguinante, in tutte le loro viscere materne, sofferenti di un dolore che non ha nome e che ha tutti i nomi: tutte non sono state più che madri di soldati, mogli di soldati, sorelle di soldati: tutte sono state solamente delle ignote anime feminili, che della loro innumerevole pena, hanno voluto fare un’opera di pietà feminile, di carità feminile, un’opera di bene, anonima,, quasi segreta e pure palese, un’opera tenace, efficace, di bene, di bene, non altro che di bene! Ah non sono più escite dalla penna di queste scrittrici, di queste poetesse, le istorie e le immagini, le rivelazioni e i ricordi: il tempo di guerra è trascorso, trascorre, e per quello che esse amavano e che facevano amare, questi lunghi giorni, questi anni, ahimè!, sono cancellati, sono perduti, per la loro arte. Con profonda devozione, con profonda dedizione, esse hanno preso e tenuto un posto qualsiasi di donna, nella immensa folla muliebre: e hanno dato le loro energie a un lavoro qualsiasi, dei più semplici: e hanno messo ogni loro ingegno, a essere consimili a tutte le altre donne, che faticavano per alleviare le pene della guerra ai soldati sul fronte, alle famiglie deserte dei loro cari, nelle città e nei paesi. E queste donne, fra cui, alcune, preclare per il nobilissimo talento, e per l’alta coscienza di arte, e per le opere durature, compirono, per amor patrio ardentemente sentito, il più tacito e il più puro fra i sacrifici, rientrando nell’ombra, confondendosi nella folla, operaie sconosciute del bene, in un ospedale, in un’ambulanza, in un posto di soccorso, in un ufficio di notizie, in un laboratorio di cucito, in un salotto dove si lavorava di calza....
Così, io, ultima fra tutte queste mie grandi sorelle, ho fatto, come loro, un silenzioso e tenace esercizio qualsiasi di lavoro, un lavoro qualunque, che non deve esser qui notato, perchè vale quello di un’altra qualsiasi donna ma che, certo, aveva una duplice possente spinta: l’amor del mio paese, l’amor dei miei figli, come migliaia di altre madri, di altre donne! Ogni tanto, a traverso l’opera giornaliera, nelle tacite e solinghe sere, la mano adusata all’antica disciplina della scrittura, gittava, sulla carta, e diffondeva, l’indomani, dal foglio stampato, una espressione immediata é sincera di un sincero sentimento, segnava sulla carta e rivelava agli ignari fuggevoli lettori le bellezze delle virtù sconosciute, le bellezze degli eroismi ignoti, così, per un bisogno di proclamare tanta purezza di abnegazione, tanta altitudine spirituale. Ma non era una scrittrice quella che aveva visto, osservato con occhì acuti, e che narrava una toccante istoria, con le sue frasi più efficaci: era una donna, solamente una donna, che aveva sentito commuoversi il suo sempre tremante cuore, che aveva sentito velarsi di lacrime i suoi occhi, e che cercava di dire, con le parole più semplici quanto l’aveva toccata profondamente. E tu, allora, lettore, lettrice che trascorrerai queste pagine, ove son segnati questi fasti del nostro popolo in guerra, ove son notati gli episodi della virtù muliebre, ove sono espressi i sensi di ammirazione, per tanto valore di fanciulle, di donne, di madri, non ingannarti, su ciò che è questo libro. Esso non è escito dalla penna di una scrittrice: in esso, parla una donna. Non vi troverai nessuna veste letteraria: ma vi sentirai, io spero, io credo, la sinerità di un vivo ma contenuto dolore, il fervore di una immensa speranza.
Napoli, primavera del 1916
Matilde Serao.