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LII.
Nessuno si creda aver imparato a vivere, se non ha imparato a tenere per un purissimo suono di sillabe le profferte che gli sono fatte da chicchessia, e piú le piú spontanee, per solenni e per ripetute che possano essere: né solo le profferte, ma le istanze vivissime ed infinite che molti fanno acciocché altri si prevalga delle facoltá loro; e specificano i modi e le circostanze della cosa, e con ragioni rimuovono le difficoltá. Che se alla fine, o persuaso, o forse vinto dal tedio di sì fatte istanze, o per qualunque causa, tu ti conduci a scoprire ad alcuno di questi tali qualche tuo bisogno, tu vedi colui subito impallidire, poi mutato discorso, o risposto parole di nessun rilievo, lasciarti senza conchiusione; e da indi innanzi, per lungo tempo, non sará piccola fortuna se, con molta fatica, ti verrá fatto di rivederlo, o se, ricordandotegli per iscritto, ti sará risposto. Gli uomini non vogliono beneficare, e per la molestia della cosa in sé, e perché i bisogni e le sventure dei conoscenti non mancano di fare a ciascuno qualche piacere; ma amano l’opinione di benefattori e la gratitudine altrui e quella superioritá che viene dal beneficio. Però quello che non vogliono dare, offrono: e quanto piú ti veggono fiero, piú insistono, prima per umiliarti e per farti arrossire, poi perché tanto meno temono che tu non accetti le loro offerte. Cosí con grandissimo coraggio si spingono oltre fino all’ultima estremitá, disprezzando il presentissimo pericolo di riuscire impostori, con isperanza di non essere mai altro che ringraziati; finché, alla prima voce che significhi domanda, si pongono in fuga.