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XXI.
Parlando, non si prova piacere che sia vivo e durevole, se non quanto ci è permesso discorrere di noi medesimi, e delle cose nelle quali siamo occupati, o che ci appartengono in qualche modo. Ogni altro discorso in poca d’ora viene a noia; e questo, ch’è piacevole a noi, è tedio mortale a chi l’ascolta. Non si acquista titolo d’amabile, se non a prezzo di patimenti: perché amabile, conversando, non è se non quegli che gratifica all’amor proprio degli altri, e che, in primo luogo ascolta assai e tace assai, cosa per lo piú noiosissima; poi lascia che gli altri parlino di sé e delle cose proprie quanto hanno voglia; anzi li mette in ragionamenti di questa sorte, e parla egli stesso di cose tali; finché si trovano, al partirsi, quelli contentissimi di sé, ed egli annoiatissimo di loro. Perché, in somma, se la miglior compagnia è quella dalla quale noi partiamo piú soddisfatti di noi medesimi, segue ch’ella è appresso a poco quella che noi lasciamo piú annoiata. La conchiusione è, che nella conversazione, e in qualunque colloquio dove il fine non sia che intertenersi parlando, quasi inevitabilmente il piacere degli uni è noia degli altri, né si può sperare se non che annoiarsi o rincrescere, ed è gran fortuna partecipare di questo o di quello ugualmente.