Questo testo è completo, ma ancora da rileggere. |
◄ | Stese la Notte avea | Poich'ebbe il greco infido | ► |
IV
LA TRASFORMAZIONE DI SIRINGA
EGLOGA.
Per le folte d’Arcadia amiche selve,
lá presso onde il Liceo la verde fronte
erge a le stelle e donde, alto e superbo,
volge Partenio al sol l’ombrose spalle,
la sua cara Siringa un dí seguia
il mezzo-capro dio: Siringa bella,
che mal vide ed amò, però che, quanto
egli con tutto ’l cor lei segue ed ama,
tanto ella, lui fuggendo, aborre, e segue
de la sua vergin dea l’oneste leggi;
Siringa, giá sí cruda e sí leggiadra,
che ’n tutta forse la selvaggia schiera
altra non fu la piú leggiadra e cruda.
Seguiala il rozzo dio, tutto lascivo
e tutto ingordo a la rapina intento,
dietro lei, che fuggía, cosí dicendo:
— O bella, o bella mia fiera Siringa,
Siringa, o tu che fuggi, o tu ch’avanzi
di bellezza le belle e di fierezza
le fère stesse; ond’io dir non saprei
se fra mille altre cacciatrici e mille
piú bella Amor di te, né piú rubella
unqua vedesse; a che mi fuggi? ed ove
frettolosa ten vai, sí che non odi
chi t’ama e segue e prega, o bella ninfa?
Non me, lasso, sprezzar, perché mi vegghi
di doppia forma, e che del cinto in giuso
caprigne abbia le membra e rozzo il pelo;
né schivar del mio corpo aspro e selvaggio,
fra le nevi del sen morbide e bianche,
stringer l’aduste carni, abbracciar l’irco,
baciar le labra e far vezzi a le guance,
benché d’ispidi velli irsute e folte;
ch’è tale, nel baciar, dolce diletto,
che di tanta dolcezza avida poi
tu stessa ognor dirai: — Baciami in bocca; —
e tanto io son piú duro e piú robusto,
tanto i baci fien piú teneri e dolci.
Questi miei nervi poderosi e forti,
queste di questa mia ruvida pelle
rigide sete, assai maggior daranno
diletto a te, che i delicati e molli
d’altro vil amator vaghi sembianti.
Potraile anco veder, quando tu ’l chieggia,
ricche d’auro e di gemme, e ricche e sparse
d’ardenti stelle e di celesti fregi.
Son lo dio de’ pastori e degli armenti
e de le greggi e de le lane, e donno
di queste selve e di questi antri; e questa
aurata verga e queste corna d’auro
ti dánno a diveder la signoria
c’ho sovra ogni animal, ch’alberghi bosco.
Fuggirai dunque un dio, rozza fanciulla?
Ma fuggirmi che pro, se nel mio petto,
viva e bella qual sei, ti serbo impressa?
Ahi, che, ’n fuggendo me, te stessa fuggi;
ma da me stesso il tuo partir mi parte!
Ferma, Siringa mia, deh! ferma il piede;
ferma, cangia pensier, rivolgi i passi;
ritorna indietro, eh, mia Siringa, torna;
eh, ninfa bella, eh, mio bel sole, eh ferma
il piè veloce, eh ferma, eh posa, e volgi,
volgi gli occhi, crudel, volgi le piante!
Odi, ingrata, il mio duol, ch’avrá possanza
volger dal corso lor l’onda e le stelle,
che può fermar il Sol, non che una tigre.
Tigre, sí nel voler come nel corso,
ché non ti fermi, oimè, ché non t’arresti1
ne lo specchio del cor vivo e lucente,
ov’è stampata la tua bella imago?
Giá brama il predator d’esser tua preda:
ché non t’arresti omai, ché non ti fermi?
Se tigre sei, perché paventi e fuggi,
lungi da me, qual timidetta damma?
Or qual timor ti vince? or chi giá mai
fèra feroce fuggitiva scorse?
Non fuggir, non temer, ché ben può, lasso!
far contra ogni furor, contr’ogni forza
sol la tua feritá difesa e schermo.
Sol de’ begli occhi armata e sol d’un guardo,
sei possente a ferir qual cor piú franco,
poic’hai sí forte un dio ferito e vinto!
Ove ten fuggi e m’abbandoni, o ninfa?
O ninfa troppo bella e troppo alpestra,
Pan, il tuo Pan, cui solo Arcadia adora,
te sola adora: ahi semplicetta, ahi folle!
e tu pur noi conosci, e tu nol miri;
o, se ’l miri e ’l conosci, e tu non l’ami,
anzi l’odii e disdegni. O troppo cruda,
cruda, cruda Siringa, arresta alquanto,
arresta il piede, il fuggitivo piede;
vergine vaga, aspetta, ascolta, attendi!
Deh! non fuggir almen tanto veloce,
ché men veloce seguirotti anch’io,
o tenerella mia, che non offenda
duro sasso il piè molle, o che nol punga
sterpo crudel; crudel, férmati un poco,
aspetta almen, ch’io piú non seguo, ascolta;
e, s’io ti spiaccio, poi radoppia il corso;
posa giú alquanto la faretra e l’arco,
bella d’Amor saettatrice ardita,
e, se caccia fie pur ch’a te sia in grado,
io sia la caccia e questo cor la preda.
Posa qui meco in sul vermiglio prato,
al rezzo de le verdi ombrose fronde,
e del crin vago i lascivetti errori,
che sparso al vento in mille giri ondeggia,
raccorcia e lega; ond’io di fior novelli...2
tenere, legga e di mia man gl’intessa,
purché tu poscia al tuo fedel amante
d’un serto di tua man còlto e contesto
fregi le tempie e l’auree corna avolga.
Qui farotti sentir, di te cantando
l’alte bellezze e i miei felici amori,
quanto di stile e di dolcezza e d’arte
sovra l’uso mortal valga il mio canto.
Ma tu tanto piú corri, che sí presta
fuggir non puoi, né sí spedita e sciolta,
che ’l tempo piú di te ratto non fugga,
anzi, ch’ei non ti segua e non t’aggiunga;
ch’assai tosto vedrai queste bellezze,
ond’altiera vai sí, languir neglette
e cader de l’etade il fiore e ’l pregio.
Folle, non ti fidare che sí fresche
viole e rose e nevi hai nelle guance,
ch’ancor la neve al Sol tosto si strugge:
langue la rosa, e la viola in breve,
d’austro al primo furor seccando, manca.
O Siringa, o Siringa, o empia, o empia,
ritrosa giovanetta, empia e ritrosa,
alpestre ninfa, inessorabil ninfa,
immobil ninfa, ch’al mio ben contrasti;
chi fuggi, ahi folle! ed io chi seguo, ahi lasso?
Fuggi chi t’ama e chi ti segue, e seguo
chi m’odia e fugge, e il mio dolor non cura.
O dèi selvaggi, o boscarecce dèe,
voi dèe, voi tutte dèe, qui qui vi chiamo.
Fermate il corso, ritenete il passo
de la bella e crudel Siringa mia!
Amore, e tu c’hai il laccio e tu c’hai l’ali,
l’aggiungi e ferma, e, tu che puoi, l’affrena.
Oh lasso, oh lasso me! —
Qui tacque, ed arrestò la voce e ’l corso
tutto sospeso, e sovrafatto insieme
di stupore e di duol, qual uom che cose
veggia repente, a meraviglia strane.
Fermossi, ché mirò presso la riva,
ove ’l vago Ladon le rapid’onde
superbamente mormorando frange,
cader la ninfa sbigottita e lassa,
che, veggendosi omai sorgionta e presa,
né del profondo rio col piede asciutto
potendo oltre varcar l’acqua e l’orgoglio,
umile inver’ lo ciel gli occhi rivolse,
ebri di pianto, e, lagrimando, sparse
a le care sorelle umide ninfe
ed a la casta dea prieghi e querele.
Tal fu l’affetto e fûr sí caldi i voti,
che per virtú di sovrumana forza
d’altra spoglia si cinse e d’altra forma,
e cangiò volto e tramutò sembiante,
e le due braccia in piú rampolli sciolse,
e de la gonna la pieghevol falda
in cento foglie e le giunture in cento
nodi raggiunse, e fu rivolta in canna.
Che feo, che disse poi, lasso, ch’ei vide
in frale scorza il suo tesoro amato
chiuso, e l’alma e la vita? A l’infelice
tremò la voce in bocca e ’l cor nel petto,
quando a l’aure tremar la debil buccia
s’avide e tremolar sentí le foglie
con un soave e tacito susurro
fievolemente. In tale stato amolla
pur come viva; amolla ancora, e pianse
a la dolce ombra i suoi scherniti amori.
Non men che ninfa, arida canna e vòta
gli piacque e fugli cara, e ’n guardia l’ebbe.
Baciolla il miserel tre volte e quattro,
baciolla e strinse caramente, e poi,
tre volte e quattro, abbandonato e stanco,
cadde piangendo su l’amate spoglie.
Parve sdegno e fu amor, ch’indi dolente,
spogliandola de’ suoi piú verdi onori,
troncasse a lei le tenerelle membra;
però che d’esse in strana foggia inteste
e con disegual ordine congiunte
compose a sette voci una sampogna,
stridola e vaga in guisa tal che ’l primo
bocciuol, ch’è inanzi, di lunghezza avanza
l’altro che segue, e quel che segue, l’altro.
Quindi usci fòre un flebile e tremante
di rustica armonia piacevol suono,
con cui pianse cantando, e parlò cose
che farian lagrimar chi l’intendesse.