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Gelosia
L'osteria del «Buoni Amici» Camerati


GELOSIA.



Il Bobbia disse fra di sè: — Voglio vedere se è vero, o no! — E si mise in agguato sul canto di San Damiano. Crescioni stava là di faccia: c’era il lume alla finestra. Verso le nove, come gli avevano detto, eccoti la Carlotta che passava il ponte, colle sottane in mano, e infilava la porta di Crescioni. Vi andava proprio in gala, quella sfacciata! Allora — sangue di Diana!... In quattro salti la raggiunse in cima al pianerottolo, chè lei volava su per la scala; e Crescioni se li vide capitar dentro in mazzo, Carlotta e il suo uomo, acciuffati pei capelli.

Successe un terremoto! Lui a scansar le botte; il Bobbia, colla schiuma alla bocca, che aveva tirato fuori di tasca qualche accidente; la Carlotta poi strillava per tutti e tre. Crescioni, svelto, ti agguanta la coperta del letto, già bello e preparato, e te l’insacca sul Bobbia, che se no, guai! Il sor Gostino, un pezzo d’uomo che avrebbe potuto fare il portinaio in un palazzo, menava giù nel mucchio, col manico della scopa, per chetarli.

Accorsero le guardie e li condussero in questura. Là, colle ossa peste, cominciarono a ragionare. Carlotta sbraitava che non era vero niente, in coscienza sua! Ma con quell’omaccio non voleva più starci, ora che l’aveva sospettata! Tanto non erano marito e moglie.

— Se non siete marito e moglie... — disse il Delegato.

— Dopo cinque mesi che si stava insieme come se lo fossimo! — rinfacciava il Bobbia. — Cosa gli è mancato in cinque mesi, dica, sor Delegato? E vestiti, e stivaletti, e scampagnate, le feste e le domeniche! Allora avrei dovuto aprire gli occhi, quando si perdeva nei boschetti a Gorla, con questo e con quello, sotto pretesto di cogliere i pamporcini. E lasciavo fare come fossimo marito e moglie!

— Io non ne sapevo nulla! — borbottò Crescioni, asciugandosi il sangue dal naso.

— Giacchè non ne sapeva nulla, stia tranquillo che non pretendo restare a carico suo, se non mi vuole! — strillò Carlotta, inviperita nel passare in rassegna gli strappi del vestito nuovo.

Il sor Gostino, testimonio, metteva buone parole. — Via, non è nulla! Dev’essere un malinteso. — Ma il Bobbia s’era cacciato per forza in casa altrui, a fare il prepotente; e fu miracolo a cavarsela con un po’ di carcere. — Tanto, non era vostra moglie! — profferì il Delegato. E il Bobbia rispose:

— Per me gliela lascio volentieri, quella gioia! Oramai ne sono stufo.

L’amante si grattava il capo. Però Carlotta gli buttò le braccia al collo, dinanzi al sor Delegato, e gli giurò che d’ora innanzi voleva esser sua o di nessun altro.

Il sor Gostino l’aiutò a portar la roba dal Crescioni; ma intanto andava predicando che bisognava far la pace col Bobbia, appena usciva di prigione; se no, un giorno o l’altro, andava a finir male.

— Col Crescioni? — gridò poi il Bobbia. — Con quel traditore che mi faceva l’amico?...

— Bè! ora che s’è presa la Carlotta! Faccia conto che siano marito e moglie, e il torto glielo abbia fatto lei pel primo.

Con questi discorsi non la finivano più, passo passo, dall’osteria di San Damiano alla porta del sor Gostino, sino a dopo mezzanotte, ciangottando colla lingua grossa. Una sera incontrarono la Carlotta a braccetto del Crescioni, e leticavano nel buio. Un’altra volta il Bobbia la vide che comprava della verdura dinanzi alla porta, e frugava nel carro dell’ortolano, colle braccia nude e spettinata. Talchè pareva che gli fosse rimasto attaccato il cuore da quelle parti. Quando incontrava il Crescioni, aggobbito, colla barba di otto giorni che gli faceva il viso d’ammalato, si fregava le mani.

— Ci vuol altro che quel biondino per la Carlotta, ci vuole!

— Ogni giorno e’ sono liti e botte da orbi, — narrava il sor Gostino. — Ieri ancora la è scappata nel mio casotto seminuda, chè il Crescioni voleva accopparla. Dice che lo fa per levarsela dattorno.

La vigilia di Natale, come Dio volle, riescì a farli bere insieme. — Volete incominciare l’anno nuovo colla ruggine in corpo? — La Carlotta stava sulla sua, in fronzoli, e arricciando il naso a ogni bicchiere, perchè c’era il Bobbia presente. Carina, con quella frangia di capelli sul naso! Ma Crescioni aveva il vino cattivo, stava ingrugnato, colle spalle al muro, e tossiva di malumore. — Gli avete portato via l’amante, al Bobbia! O cosa volete d’altro? — gli sussurrò all’orecchio il sor Gostino. Il Bobbia, invece, si sentiva tutto rammollire, e pagava una bottiglia dopo l’altra, senza batter ciglio.

— Mi rammento — disse alla Carlotta nell’orecchio, mi rammento quando siamo andati insieme a casa mia, la prima volta. — E Crescioni, con tanto d’occhiacci, cavò fuori il mento dalla ciarpa. Poi la comitiva andò via insieme. Crescioni avanti, colle mani in tasca e annuvolato. Aprì lo sportello e fece passare prima la Carlotta, borbottando:

— Sto a vedere che mi vuoi fare col Bobbia quel servizio che gli ho fatto io!

Il sor Gostino sogghignava pensando: — Questa notte la mi capita in camicia di certo.

Al Bobbia raccontava in confidenza come la Carlotta gli piacesse anche a lui, per quel suo fare allegro. — Senza ombra di malizia, veh! — Fortuna che sua moglie stava sempre al primo piano, dal padrone, il quale non gliela lasciava un minuto solo. Se no, gelosa com’era, guai! — Il sor Gostino aveva una paura maledetta della sora Bettina, che l’aveva sposato e innalzato a portinaio perchè da quarant’anni lei era tutta una cosa col padrone. Tanto che costui, quando leticavano fra marito e moglie, e si udivano nella corte gli improperi e le parolacce della sora Bettina, si affacciava al balcone, in pantofole, e strillava colla voce catarrosa: — Ohè, Gostino! Cosa l’è sta storia?

Ma torniamo agli altri due. Crescioni voleva sposare la Carlotta sul serio, perchè essa gli andava dicendo che stavolta era proprio necessario. — Almeno, — pensava lui, — sarò certo che il bambino è roba mia!

Il sor Gostino strizzava l’occhio furbo: — E se cercate un padrino, ve l’ho già bello e trovato!

— Che discorsi! — gridava la sora Carlotta tentando di arrossire.

Il Bobbia era arrabbiato come un cane. Da un pezzo non la vedeva; e la Gigia, tabaccaia, dopo averlo menato pel naso una settimana o due, gli aveva risposto picche, sulla guancia. — Ah! di lui non voleva più saperne, la sora Carlotta, onde farsi sposare dal Crescioni? — Si sentiva la febbre addosso ogni volta che la vedeva, dal bugigattolo del sor Gostino, a menar la tromba, dimenando i fianchi, o a portar su l’acqua, colla pancia in fuori. — Mi lasci andare ad aiutarla, sor Gostino. No, non ho più sete. Il resto lo beva lei per amor mio. — Ma la Carlotta scappava via appena lo vedeva.

— Andatevene! C’è lui in casa. Poi, tutto è finito fra di noi. — Avrebbe voluto batterla e afferrarla per quella collottola grassa che gli faceva bollire il sangue. — Ah! tu c’ingrassi con quel tisico! Tu vuoi farmi morir tisico come lui! Che son fatto di stucco, ti pare?...

— Dovevate pensarci prima. To’, questa vi calmerà i bollori.

E Bobbia se ne andava scuotendo l’acqua dal vestito e bestemmiando.

Si fece il matrimonio. Nacque un bambino, due mesi prima del solito, e fu una femmina. Crescioni era sulle furie, perchè almeno avrebbe voluto un maschio, e non dover pensare alla dote e a tante altre seccature. — Quanto a ciò non si dia pena per sua figlia — lo confortava il sor Gostino — la farà come sua madre.

Sua madre aveva fatto quello che sapevano tutti. S’era lasciata prendere dalle belle parole di un signorino, e dopo era scappata via di casa, per nascondere il marrone, accorgendosi che la mamma le ficcava gli occhi addosso senza dir nulla, e si sentiva salire le fiamme al viso. Fu un sabato grasso; giusto la Luisina era andata ad impegnare roba per fare il carnevale, e disse alla figliuola: — Cos’hai che non mangi? — con cert’occhi! Il giorno dopo trovarono l’uscio aperto; e il babbo, poveraccio, s’era dato al bere dal crepacuore. Che colpa ne aveva lei? Da fanciulletta era andata attorno per le strade e nei caffè, vendendo paralumi. — Come chi dicesse andare a scuola per apprendere il mestiere. — Poi la miseria, l’uggia di tornare a casa colla mercanzia tale e quale, via della Commenda, ch’era tutta una pozzanghera, la tentazione delle vetrine, i discorsi dei monelli, le paroline degli avventori che contrattavano soltanto... Insomma, era destinata! Allorchè il suo amante l’aveva piantata in via San Vincenzino, con quattro cenci nel baule e diciassette lire in tasca, era stata costretta a mettersi col Bobbia, il quale la teneva allegra, quando ne aveva da spendere, e la picchiava dopo, per via della bolletta. Crescioni, invece, non beveva, non bestemmiava, ed era sempre malinconico pensando alla sua poca salute. Ella era andata da lui a sfogarsi dei cattivi trattamenti, e poi c’era rimasta pel piacer suo. Quel giovanotto era preciso come lo voleva lei. Egli predicava: — Vieni di sera. — Vieni di nascosto. — Bada che lui non se ne accorga! — Tale e quale un ragazzo pauroso dell’ombra sua. Sicchè quando il Bobbia capitò a fare quel baccano, Carlotta non gliela perdonò mai più. Infine, cos’era stato? Suo padre stesso, quand’era scappata via di casa, non aveva fatto tanto chiasso. Eppure il danno era più grosso! — Per quel Crescioni, poi, ch’era quasi un ragazzo! — Sentite! finiva lo sfogo col sor Gostino. — Fosse stato geloso di voi, o di qualche altro pezzo d’uomo, pazienza! Ma del Crescioni?... Veh! Tutta una birbonata del Bobbia per avere il pretesto di piantarmi.

Il sor Gostino si fregava le mani. Non che ci avesse pel capo certe idee!... Poi con quell’accidente di sua moglie sempre sulla testa, alla finestra del padrone!... Perciò aveva preso l’abitudine di spazzar la scala sino in cima, allo scopo di non dar nell’occhio. — O che non leticate più con vostro marito? È un pezzetto che non vi vedo arrivare in sottanina.

Appoggiava la scopa contro l’uscio, e si fregava le mani un’altra volta.

— No! Stia cheto con le mani! Adesso è finito il tempo delle sciocchezze!

— Non sono sciocchezze, sora Carlotta! Sembro un Sansone, direte. Ma non è vero! Pel cuore sono un ragazzo. E sempre disgraziato, veh! Perfino mia moglie, è otto giorni che non la vedo, dacchè il padrone è a letto. Anche lei, povera sora Carlotta, le si vede in faccia; suo marito la lascia per correre chissà dove! O pensa tuttora al Bobbia?

— A me non me ne importa. E poi non è vero niente.

Il sor Gostino stava a guardare mentre ella aveva la bambina al petto, grattandosi la barba.

— Non gliene importa?... Dica un po’... E quella bambina che lui dice che è figlia sua?

Carlotta faceva una spallucciata. Il sor Gostino si metteva a ridere anche lui, e ripigliava la scopa, ciondolando per un pezzo prima di decidersi ad andare; oppure si chinava a fare il discorsetto alla bimba, accarezzandola sul seno della mamma colle manacce sudice. — In coscienza, non somiglia a nessuno di loro due.

Crescioni era geloso della bambina, che veniva su bionda e color di rosa. — Se ti vedo ancora dattorno il Bobbia — le diceva — ti fo come la donna tagliata a pezzi!

E si faceva brutto che non pareva vero, con quella faccia dabbene di tisico. Non che fosse geloso della Carlotta, — ormai l’aveva sempre là, davanti agli occhi, sciatta, spettinata, colla figlia al petto. Per altro non gliene importava più dell’amore. Era malato, e aveva altro per il capo. Ma tant’è, poichè era stato lui a sposarla! E ci aveva sciupati i denari e la salute. Il principale gli riduceva il salario di un terzo, adesso che non era più in gamba come prima. E se non era in gamba e non aveva denari, lo sapeva di che cosa era capace la Carlotta! Perfino di viziargli la figliuola, a suo tempo. La malattia gli aveva sconvolta la testa, e gli sembrava di veder la ragazza, già grandicella, lasciarsi baciare da questo e da quello, come sua madre. Perciò arrivava a leticare colla moglie se accarezzava la bambina quasi fosse cosa sua. Anche il sor Gostino con quell’aria di minchione... Insomma, non ce lo voleva più a bazzicare in casa sua! — Oh Dio! quel povero diavolo! — esclamava la Carlotta. Ma lui, testardo, non si muoveva di casa la domenica a far la guardia, se udiva la scopa per le scale, seduto accanto alla finestra, torvo, col naso nella ciarpa e le mani in tasca, senza dir nulla. Poi, ogni volta che tossiva, saettava delle occhiatacce sulla moglie, e se la bambina strillava, era una casa del diavolo.

— Non toccare mia figlia, o per la Madonna!... Lascia stare d’insegnarle le tue moine piuttosto!

I dispiaceri gli minavano la salute, diceva. A poco a poco anche il principale si stancò, e Crescioni non si mosse più dal letto. Sua moglie, in quei quaranta giorni, impegnò sino le lenzuola. Egli brontolava che si era ridotto in quello stato per causa sua. All’ospedale però non voleva andarci, perchè quando sarebbe stato via, chissà cosa succedeva!

Sino all’ultimo! Se ella usciva un momento a far qualche compera, se scendeva ad attinger l’acqua: — D’onde vieni così scalmanata? T’ho detto che mia figlia non devi condurla attorno! — La tosse lo soffocava sotto le coperte. Allorchè lo portarono all’ospedale infine, accusò la moglie di averlo tradito — come Giuda fece a Cristo — per scialarla in libertà. — Non vedi come son ridotta? si scolpava lei. — Non vedi che non ho più neppur latte per la bambina?

— Almeno verrai a trovarmi colla piccina!

Ci andava spesso di fatti. Ma erano altri bocconi amari. La bimba aveva paura di suo padre, al vederlo con quel berrettino in mezzo a tanti visi nuovi. Lui si sfogava a brontolare tutti i guai della settimana.

— Una vitaccia da cani! lamentavasi la Carlotta col sor Gostino. — Affaticarsi da mattina a sera, e la festa poi quel divertimento! — Il sor Gostino l’accompagnava, per bontà sua, e le comprava qualche regaluccio da portare al malato. — Che volete farci? Bisogna aver pazienza finchè campa. — Il poveretto aveva il cuoio duro, e non finiva più di penare. La Carlotta si stancò prima di lui d’andare e venire, e di trovarlo sempre lo stesso, con quel berrettino bianco ritto sul guanciale. Si fermava appena due minuti, il tempo di vedere a che punto era, e di portargli qualche cosuccia, senza dire che gliela aveva regalata il portinaio. Ma ei glielo leggeva in faccia, e le guardava le mani, sospettoso, tirandosi la coperta sino al naso, senza dir nulla, e le ficcava in faccia gli occhi neri di febbre, e domandava:

— Hai visto il Bobbia? — T’ha detto nulla il portinaio?

Si capiva che ne aveva tante nello stomaco; ma non parlava perchè era confinato in quel letto, e se Carlotta non veniva più restava solo come un cane. Sovente almanaccava dei progetti per quando sarebbe guarito. — Faremo questo. Faremo quest’altro. — Ma ella rimaneva zitta e guardava altrove. Allora disse lui: — Se guarisco, voglio ammazzar qualcuno, dammi retta! — E la bambina si aggrappava al collo della madre, strillando di paura.

Glielo diceva il cuore, al poveraccio. Il sor Gostino era tutto il giorno su e giù per la scala colla granata in mano. Davvero, pel cuore era un ragazzo! Si divertiva a far quattro chiacchiere con lei, o ad accendere il fuoco nel fornello, e farle andar la macchina — gira, gira, gira; — nello stesso tempo dalla finestra, dietro la tendina, teneva d’occhio la porta, e quando cominciava a farsi scuro, che gli vedeva quella testa china sulla macchina, si sentiva dentro lo stesso rimenìo. Gli bastava che dicesse: — Grazie, sor Gostino.

— Non lo faccio per questo, sora Carlotta. Sono un galantuomo e non fo le cose per secondo fine. — Chi era andato a cercarle del cucito? Chi gli faceva prestar la macchina al bisogno? Chi andava a parlare col padron di casa se tardava la mesata?

La sora Bettina infuriava per queste condiscendenze. Un altro po’ la casa diventava un luogo pubblico! E se la pigliava anche col padrone che faceva il comodino per sbarazzarsi del marito. Tutto a riguardo suo!

Il sor Gostino non si dava pace. — O dunque cosa gliene importa a lei? — La Carlotta invece si lagnava: — Signore Iddio! Com’è cattivo il mondo, a pensare il male che non facciamo nè voi nè io!

Il sor Gostino allora non sapeva che dire, e ruminava cosa dovesse fare onde non sembrare un minchione, o prendeva il partito di posarsi la mano aperta sul costato: — Sono un galantuomo, ve l’ho detto. Vi voglio bene, ma sono un galantuomo!

Però non voleva che il Bobbia tornasse a fare il moscone da quelle parti. Glielo aveva predicato: — Adesso quella poveraccia è come se fosse vedova.

Appunto! Bobbia ci aveva diritto lui perchè era l’amore antico! Il portinaio faceva come il cane dell’ortolano per invidia e per gelosia. Ma se adesso l’aveva lui, voleva averla anche il Bobbia, ch’era stato il primo. Si vedeva chiaro: il sor Gostino la teneva sempre in casa pel comodo suo. Il Bobbia dovette aspettarla dieci volte prima di vederla uscire un momento.

— Senti! Se non vieni con me oggi stesso, vi ammazzo tutti, te e il tuo amante.

La poveretta s’era sentito un tuffo nel sangue al vederlo, e affrettava il passo, smorta come un cencio. Egli la raggiunse in via Ciossetto, furibondo, e l’afferrò pel braccio. — Per carità! Non mi fate male! Che amante? Ti giuro! Non ne ho! — Tanto meglio. Allora, se non ne hai, perchè non vieni?

E ci andò per la paura. Dopo il Bobbia, appena se ne accorse, montò in furia: — Tu vuoi sempre bene a tuo marito, dì! — Oh, quel poveretto!... — Allora hai per amante il sor Gostino! — No, non è il mio amante. — Ma gli vuoi bene, dì! — Ella tremava e supplicava: — Non son venuta qui? Non ho fatto quel che tu dicevi? Cosa vuoi ancora?

Voleva... voleva... E prima voleva mandarla via di casa a calci, voleva! Poi col sor Gostino avrebbe fatto i conti a tu per tu, e non per gelosia della Carlotta veh... ormai era carne vecchia! — Ma il sor Gostino era un ragazzo soltanto colle donne. Al primo pugno l’accecò mezzo, e se lo mise sotto, giusto nella corte, da pestarlo come l’uva. La sora Bettina, di sopra, buttava acqua, porcherie e male parole, e il padrone, dietro, a strillare: — Ohè, Gostino! Gostino!

Carlotta fu licenziata su due piedi, e dovette sgomberare in otto giorni. La sora Bettina, il padrone, lo stesso sor Gostino, volevano un po’ di pace alfine.

Il Bobbia, col muso pesto, andava dicendo: — Non me ne importa di colei. Ma mosche sul naso non me le lascio posare!

La Carlotta finalmente andò a vedere cosa n’era di suo marito che non moriva mai. Lo trovò sempre nello stesso letto, cogli occhi spalancati, più sfatto, non si lamentava più, e stava immobile colla faccia color di terra. Quegli occhi di fantasima le si ficcavano addosso come chiodi; e pareva che la sua voce uscisse dalla sepoltura: — Dove sei stata tutto questo tempo? — Di’, cosa hai fatto?




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