Questo testo è stato riletto e controllato.
Traduzione dal latino di Gian Domenico Romagnosi (1799)
Antichità


PERVIGILIUM VENERIS


OSSIA


INNO PER LE FESTE DI VENERE


NUOVA TRADUZIONE


DI


GIANDOMENICO ROMAGNOSI


Al celebrarsi delle ben augurate nozze tra la nobile signora Contessa Donna Maria Teresa d’Arco ec. ec. col nobile signore Barone Pier-Paolo De Altenburger ec. ec. si publica questa nuova e fedele versione del Pervigilium Veneris a significazione di sincero giubilo, di dovuta gratitudine, e di profondo rispetto. (Trento 1799)


         Ami domane — Chi non amò;
              E ancor chi amò — Ami domane.

Nuova e canora sorgere — Già vedi Primavera.
     In primavera il nascere — Fu dato ad ogni sfera.

In primavera accordano — Gli amori le lor voglie;
     Nido nuzial gli aligeri — In primavera accoglie.

E ’l bosco che rivegeta — Per maritale umore
     Della sua chioma scioglie — All’aura il nuovo onore.

Dal sangue allor de’ Superi, — Dal globo fuor spumoso,
     Infra cavalli bipedi, — Fra azurro acervo ondoso,

L’almo poter d’Egíoco — Su conca lucicante
     Fece dischiuder Venere — Marino umor grondante.
                  Ami domane, ec.

La Dea che amori accoppïa — Fra gli alberi ombreggianti
     Tesse con tralci mirtei — Capanne verdeggianti.

Assisa in alto soglio — All’indoman Dïone
     Farà co’ suoi giudizi! — Equa ad ognun ragione.

E all’anno che s’irradïa — Di porporin colori
     Ella le spoglie semina — Di bei gemmati fiori.

Ella doman le Vergini — Avvinte vuol di rose
     Che dalle foglie scuotano — Le stille rugiadose.

I germi sol che spuntano, — Cui la corteccia stringe,
     Con l’aura di Favonio — In rosei nodi spinge.

Essa al notturno soffio — Dell’etere sereno
     Sparge rugiada lucida — Su l’umido terreno.
                  Ami domane, ec.


Ma vedi omai le porpore — Sovra de’ fior dipinte
     Dal loro sen dischiudere — II rosso di lor tinte:

Tinte di sangue Adonio, — Di baci d’amor fatte,
     Da’ rai del Sol vermigli, — Da gemme e fiamme tratte.
                  Ami domane, ec.

Col suo comando Venere — Dalle sue Ninfe chiede
     Che a’ sacri boschi mirtei — Volgan sommesse il piede.

Alle fanciulle socïo — Va il pargoletto Nume;
     Ma se de’ strali ei gravasi, — Ozioso chi ’l presume?

Ite omai, Ninfe impavide; — D’ogn’opra Amor riposa:
     Che ignudo e inerme ei vadasi — Si vuole, e l’arme posa.

Vietato fugli il compiere — Ogni pensier di male
     Coll’arco o cogl’ incendii, — O col vibrar lo strale.

Pur, Ninfe, state in guardia, — Che bello è il Nume alato:
  Quando Amor nudo trovasi, — Tutto è del pari armato.
                  Ami domane, ec.

Ecco a te, Vergin Delïa, — Da Venere mandate
     A te simili vergini — D’ egual pudor dotate.

Chiediam sol una grazïa: — Deh! lascia che le selve
     Monde del sangue siano — Delle trafitte belve.

La Dea d’amor medesima — Vorrebbe te pregare,
     Se una pudica Vergine — Sapesse a sè piegare.

Alle sue feste aggiungere — Vorría la sua presenza,
     Se fosse convenevole — A verginal decenza.

Cori potresti scorgere — Già da tre notti in feste,
     Sparsi a drappelli unanimi — Gir per le tue foreste.

Tu li vedresti scorrere — Ad ora fra mirtine
     Capanne, e ad ora avvolgere — Serti di fiori al crine.

Quivi si trova Cerere, — Nè Bacco vedi absente;
     De’ vati il Nume armonico — Ivi sta pur presente.

Tutta la notte in cantici — Si veglia, se ’l concedi;
     Regni ne’ boschi Venere; — O Delia, tu recedi.
                  Ami domane, ec.


All’indoman di Cípride — Fu per volere indetto
     De’ fior che in Ibla sorgono — Sia un tribunale eretto.

Da lei medesma preside — Decreti emaneranno;
     Compagne nel giudizïo — Le Grazie sederanno.

Ibla, i fior tutti versaci — Nell’anno intier raccolti,
     E stare quanti possono — D’Enna nel campo accolti.

Quì saran quante vivono — Fanciulle in ville o in monti;
     Quante in le selve albergano, — Ne’ sacri boschi o ai fonti.

Tutte, mercè il suo placito, — La Diva quì le aduna:
     Ad Amor senza spoglia — Vieta il dar fede alcuna.
                  Ami domane, ec.

Già il toro il fianco adagia, — E la ginestra ingombra;
     Ecco belanti greggie — Co’ lor mariti all’ombra.

Quanto cammina o striscia, — E quanto spiega l’ali,
     Tutto s’affrena e abbracciasi — Con nodi conjugali.

Già senti i cigni garruli, — De’ stagni in mezzo all’onda,
     Col rauco loro strepito1 — Far rintronar la sponda;

E del pennuto genere — Alle canore schiere
  La Diva diede l’ordine — Ora di non tacere.

La violata da Téreo — Vergin col canto dolce
     Del pioppo all’ombra l’etere — Ad ogn’intorno molce;

Talchè diresti esprimere, — Invece del lamento,
   Desir d’Amori teneri — In musico concento.

E la sorella in gemiti, — Diresti, non rivela
     Contro il marito barbaro — L’orror di sua querela.

Essa già canta, e taciti — Starem noi solo a udire
     Se primavera vedesi — Di nuovo a comparire?

Quando verrà che simile — A rondinella io sia,
     E fine al mio silenzio — Così da me si dia?
                  Ami domane, ec.

  1. Uno de’ pochi poeti che non ripeta la stolida canzone del soave canto del cigno.

Note

    Questa voce è stata pubblicata da Wikisource. Il testo è rilasciato in base alla licenza Creative Commons Attribuzione-Condividi allo stesso modo. Potrebbero essere applicate clausole aggiuntive per i file multimediali.