< Piccolo mondo antico < Parte seconda
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Parte seconda Parte seconda - La sonata del chiaro di luna e delle nuvole


CAPITOLO I.



Pescatori.


Il dottor Francesco Zérboli, I. R. Commissario di Porlezza, approdò alla I. R. Ricevitoria di Oria il 10 settembre 1854, proprio quando un sole veramente imperiale e regio sormontava il bastione poderoso della Galbiga, sfolgorava la rosea casetta della ricevitoria, gli oleandri e i fagiuoli della signora Peppina Bianconi, chiamando, secondo i regolamenti, all’ufficio il signor Carlo Bianconi suo marito, quel tale Ricevitore cui la musica manoscritta puzzava di cospirazione. Il Bianconi, detto dalla sposa «el mè Carlascia» e dal popolo «el Biancòn» un omone alto, grosso e duro, col mento pelato, con due baffoni grigi, con due occhi grossi e spenti di mastino fedele, discese a ricevere l’altro I. R. mento pelato di categoria superiore. I due non si rassomigliavano proprio che nella nudità austriaca del mento. Lo Zérboli, vestito di nero e inguantato, era piccolo e tozzo, portava due baffetti biondi appiccicati alla faccia giallognola, bucata da due scintille d’occhietti sarcastici e sprezzanti. Aveva i capelli piantati così basso sulla fronte ch’era solito raderne una lista, restandogliene spesso un’ombra, quasi, di bestialità. Prontissimo di persona, d’occhi e di lingua, parlava un italiano nasale, modulato alla trentina, con facile cortesia. Disse al Revitore che doveva tenere un convocato, il consiglio comunale d’allora, a Castello e che aveva preferito venir per tempo, fare la salita, col fresco, da Oria invece che da Casarico o da Albogasio, onde procurarsi il piacere di salutare il signor Ricevitore.

Il bestione fedele non capì subito che c’era un secondo fine, ringraziò con un miscuglio di frasi ossequiose e di risatine stupide, fregandosi le mani, offerse caffè, latte, uova, l’aria aperta del giardinetto. Colui accettò il caffè e rifiutò l’aria aperta con un cenno del capo e una strizzata d’occhi così eloquente che il Carlascia, vociato su per le scale «Peppina! Caffè!» fece passare il Commissario in ufficio, dove, sentendosi trasmutare, secondo la sua doppia natura, da Ricevitore di dogana in agente di polizia, si fece devoto il cuore e austero il viso come per una unione sacramentale col monarca. Questo ufficio era un ignobile bugigattolo a pian terreno, con le inferriate ai due finestrini, una infetta cellula primitiva che aveva già il puzzo della grande monarchia. Il Commissario vi si piantò a sedere in mezzo, guardando l’uscio chiuso che dall’approdo metteva nell’anticamera; quello che dall’anticamera metteva nell’ufficio era rimasto aperto, per ordine suo.

«Mi parli del signor Maironi» diss’egli.

«Sorvegliato sempre» rispose il Biancòn. «Anssi «soggiunse nel suo italiano di Porta Tosa» aspetti: ci ho quì un rapporto quasi finito.» E si diede a frugare, a palpar fra le sue carte in cerca del rapporto e degli occhiali.

«Manderà, manderà» fece il Commissario che non si aspettava molto dalla prosa del bestione.

«Intanto parli, dica!»

«Malintensionato sempre, questo si sapeva» ricominciò l’eloquente Ricevitore «e adesso anche si vede. Si è messo a portare quella barba, sa, quella mosca, quella moschetta, quel pisso, quella porcheria....»

«Scusi» fece il Commissario. «Vede, io sono ancora nuovo, ho istruzioni, ho informazioni, ma un’idea esatta dell’uomo e della famiglia non l’ho ancora. Bisogna che Lei me li descriva proprio a fondo così come può. E incominciamo pure da lui.»

«Lui è un superbo, un furioso, un prepotentone. Avrà attaccato lite cinquanta volte, quì, per affari di dassio. Vuol aver sempre ragione, vuol darci lessione a me e al sedentario. Caccia fuori due occhiacci come se volesse mangiare la Ricevitoria. L’è che con me non c’è da fare il prepotente, se del resto....! Perchè sa di tutto, poi, questo sì. Sa di legge, sa di finansa, sa di musica, sa di fiori, sa di pesci, el diavol a quatter.»

«E lei?»

«Lei? Lei lei lei lei.... lei l’è ona gattamorgna ma se la cascia foeura i ong l’è pesg de lü; peggio! Lui quando va in collera diventa rosso e fa un baccano di mille lire; lei diventa pallida e dice insolense d’inferno. Adesso si dice, insolense io non ne tollero... ma insomma... mi capisce. Donna di talento, sa. La mia Peppina ci è innamorata. Donna che s'insinua dappertutto, poi. Tante volte quì a Oria invece di chiamare il dottore chiamano lei. Se in una famiglia questionano vanno da lei. Se ci vien il mal di pancia a una bestia domandano lei. I bagàj s’i a tira dree tücc. È magari buona, in carnevale, di fare i magatelli per loro. Sa, i burattini. E in pari tempo è un accidente che suona il cembalo, che sa il francese e il tedesco. Io per mia disgrassia non lo so, il tedesco, e sono andato da lei così delle volte per farmi spiegare carte tedesche che capitano in ufficio.»

«Ah, Lei ci va, in casa Maironi?»

«Sì, qualche volta, per questo.»

Veramente il bestione ci andava pure per farsi spiegare da Franco certi enigmi della tariffa doganale; ma questo non lo disse.

L’interrogatorio del Commissario continuò.

«E la casa, come è messa?»

«Messa bene. Bei pavimenti alla venessiana, soffitti pitturati, canapè con tappeti, cembol, camera da pranso colle pareti tappessate di ritratti ch’è una bellèssa.»

«E l’ingegnere in capo?»

«L’ingegnere in capo è un buon omaccio, allegro, all’antica; mi somiglia a me. Più vecchio però, sa. Del resto qui ci sta pochissimo. Un quindici giorni a questa stagione, altri quindici la primavera e qualche visitina durante l’anno. Quando ha la sua pace, la sua quiete, il suo latte alla mattina, il suo latte alla sera, il suo boccale di Modena a pranso, il suo tarocco, la sua gasètta di Milano, l’ingegnere Ribera è contento. Del resto, tornando alla barba del signor Maironi, c’è anche di peggio. Ho saputo ieri che il signore ha messo un gelsomino in un vaso di legno inverniciato di rosso.»

Il Commissario, uomo d’ingegno e forse indifferente, nel più intimo del cuor suo, a tutti i colori tranne a quello della propria ciera e della propria lingua, non potè a meno di alzar un po’ le spalle. Ma poi domandò subito:

«La pianta è fiorita?»

«Non lo so, domanderò alla donna.»

«A chi? A Sua moglie? Ci va, Sua moglie, in casa Maironi?»

«Sì, qualchevolta ci va.»

Lo Zérboli piantò i suoi occhietti sprezzanti in faccia al Bianconi, e gli articolò ben chiara questa domanda:

«Ci va con profitto o no?»

«Ma! Con profitto! Segond! Lei si figura di andare come amica della signora Luisina, per i fiori, per i lavori, per i pettegolèssi, e cicip e ciciàp, sa bene, donne. Io poi ci cavo...»

«Tè chì, tè chì!» esclamò nel suo italiano di Porta Ticinese la signora Peppina Bianconi, venendo avanti col caffè, tutta sorridente. «El sür Commissari! Comè goo mai piasè de vedèll! El sarà magàra minga tant bon el caffè, però l’è el prim! La bolgira l’è de minga podè toeul a Lügan!»

«Tetetetetè!» fece il marito, burbero.

«Euh diavol! Disi inscì per rid. El capiss ben, neh, lü, sür Commissari! L’è quel benedett omasc lì ch’el capiss no! En toeui nanca per mi de caffè, ch’el se figura! Toeui giusta l’acqua de malva per i girament de testa.»

«Ciciàra minga tant, ciciàra minga tant!» interruppe il marito. Il Commissario, posando la tazza vuota, disse alla buona signora che sarebbe poi andato a vedere i suoi fiori, e questa galanteria parve l’atto di chi al caffè, butta e fa suonar la moneta sul vassoio perchè il tavoleggiante lo pigli e se ne vada.

La signora Peppina intese e sgomentata per giunta dai grossi occhi feroci del suo Carlascia, si ritirò frettolosamente.

«Senta senta senta», fece il Commissario coprendosi la fronte e stringendosi le tempie colla mano sinistra. «Oh!» esclamò a un tratto, nel raccapezzarsi. «Ecco, volevo sapere se, adesso, l’ingegnere Ribera è a Oria.»

«Non c’è, ma verrà fra pochissimi giorni, credo.»

«Spende molto, l’ingegnere Ribera, per questi Maironi?»

«Spende molto, sicuro. Non credo che di casa sua don Franco abbia più di tre svansiche al giorno. Lei poi....» Il Ricevitore si soffiò sul palmo della mano. «Dunque capisce. Hanno la donna di servissio. C’è una bambina di due anni o chè; ci vuole la ragassa per curare la bambina. Si fanno venire fiori, libri, musica, el diavol a quatter. Alla sera si giuoca a tarocchi, c’è la sua bottèglia. Ce ne vogliono così delle svansiche, mi capisce!»

Il Commissario riflettè un poco e poi, con una faccia nebulosa, con gli occhi al soffitto, con certe parole sconnesse che parevano frammenti d’oracolo, fece intendere che l’ingegnere Ribera, un I. R. impiegato favorito recentemente dall’I. R. Governo di una promozione in loco, avrebbe dovuto esercitare sui nipoti una influenza migliore. Quindi con altre domande e con altre osservazioni che concernevano specialmente le presenti debolezze dell’ingegnere, insinuò al Bianconi che le sue attenzioni paterne dovevano rivolgersi con particolare segretezza e delicatezza all’I. R. collega, onde illuminare, occorrendo, la Superiorità circa tolleranze che sarebbero scandalose. Gli chiese finalmente se non sapesse che l’avvocato V. di Varenna e un tale di Loveno venivano abbastanza spesso a visitare i Maironi. Il Ricevitore lo sapeva e sapeva dalla sua Peppina che venivano a far musica. «Non credo!» esclamò il Commissario con subita e insolita asprezza. «Sua moglie non capisce niente! Ella si farà menar per il naso, caro Bianconi, a questo modo. Quei due sono soggettacci che starebbero bene a Kufstein. Bisogna informarsi meglio! Informarsi e informarmi. E adesso andiamo in giardino. A proposito! Quando entra da Lugano qualche cosa per la marchesa Maironi...»

Lo Zérboli compiè la frase con un gesto di graziosa larghezza e s’incamminò seguito dal mastino, alquanto mogio.

La signora Peppina si fece trovare ad annaffiar i fiori con l’aiuto d'un ragazzotto. Il Commissario guardò, ammirò e trovò anche modo di dar una lezioncina al poliziotto subalterno. Lodando quei fiori trasse destramente la Bianconi a nominar Franco e sulla persona di Franco non si fermò affatto come se non gliene importasse nulla. Si tenne ai fiori, affermò che Maironi non poteva averne di più belli. Strilli, gemiti e giaculatorie dell’umile signora Peppina che persino si vergognava d’un paragone simile. E il Commissario insistette. Ma come? Anche le fuchsie di casa Maironi eran più belle? Anche le vainiglie? Anche i pelargoni? Anche i gelsomini?

«I gesümin?» fece la signora Peppina. «Ma el sür Mairon el gà el pussee bell gesümin de la Valsolda, cara lü!»

Così il Commissario venne a sapere molto naturalmente che il famoso «gesümin» non era ancora fiorito. «Vorrei vedere le dalie di don Franco» diss’egli. La ingenua creatura si offerse di accompagnarlo a casa Ribera quel giorno stesso: «gavarissen inscì mai piasè!» Ma il Commissario espresse il desiderio di attendere la venuta dell’I. R. ingegnere in capo della provincia per avere occasione di riverirlo e la signora Peppina fece «eccola!» in segno della sua soddisfazione. Intanto il mastino, umiliato da quell’arte superiore, desiderando mostrar in qualche modo che almeno dello zelo ne aveva anche lui, afferrò per un braccio il ragazzotto dall’annaffiatoio e lo presentò:

«Mio nipote. Figlio d’una mia sorella maritata a Bergamo con un I. R. portiere della Delegassione. Ha l’onore di chiamarsi Francesco Giuseppe, per desiderio mio; ma capisce bene, per il dovuto rispetto, questo non può essere il nome solito.»

«Soa mader la ghe dis Ratì e so pader el ghe dis Ratù, ch’el se figura!» interloquì la zia.

«Citto, Lei!» fece lo zio, severo. «Io lo chiamo Francesco. Un ragasso bene educato, devo dirlo, molto bene educato. Dì un po’ su, Francesco, quando sarai grande, cosa farai?»

Ratì rispose a precipizio come se recitasse la Dottrina Cristiana:

«Io quando sarò grande mi comporterò sempre da suddito fedele e devoto di Sua Maestà il nostro Imperatore nonchè da buon cristiano; e spero coll’aiuto del Signore diventare un giorno I. R. Ricevitore di dogana come mio zio, per andar quindi a ricevere il premio delle mie buone opere in paradiso.»

«Bravo bravo bravo» fece lo Zèrboli, accarezzando Ratì. «Seguitiamo a farci onore.»

«Ch’el tasa, sür Commissari» saltò fuori da capo la Peppina «che stamattina el baloss el m’à mangiaa foeura mèss el süccher de la süccherera!»

«Comè comè comè?» fece il Carlascia uscendo di tòno per la sorpresa. Si rimise subito e sentenziò: «colpa tua! Si mettono le cose a posto! Vero, Francesco?»

«Pròpe» rispose Ratì; e il Commissario seccato da quel battibecco, da quella ridicola riuscita della sua frase paterna, prese bruscamente congedo.

Appen partito lui, il Carlascia menò un «toeu sü el züccher, ti» e un formidabile scapaccione a Francesco Giuseppe che si aspettava tutt’altro e corse a salvarsi tra i fagiuoli. Poi aggiustò le partite di sua moglie con un buon rabbuffo, giurando che in avvenire lo avrebbe tenuto lui lo zucchero, e poichè ella si permise di ribattere «cossa te voeut mai intrigàt ti?» la interruppe «intrigatissim in tütt! Intrigatissim in tütt!» e voltatele le spalle, s’avviò a gran passi, sbuffando e fremendo, verso il posto dove la diligente sposa gli aveva preparata la lenza e la polenta, inescò i due poderosi ami da tinche. Poichè in antico quel piccolo mondo era ancora più segregato dal mondo grande che al presente, era più che al presente un mondo di silenzio e di pace, dove i funzionari dello Stato e della Chiesa e, dietro al loro venerabile esempio, anche alquanti sudditi fedeli dedicavano parecchie ore ad una edificante contemplazione. Primo a ponente, il signor Ricevitore slanciava due ami appaiati in capo a una lenza sola, due traditori bocconi di polenta, lontano dalla sponda quanto mai poteva; e quando il filo si era ben disteso, quando il sughero indicatore si era quasi ancorato in placida attesa, l’I. R. uomo posava delicatamente la bacchetta della lenza sul muricciuolo, sedeva e contemplava. A levante di lui, la guardia di finanza che allora chiamavano «il sedentario» accoccolata sull’umile molo dell’approdo davanti ad un altro sughero, pipava e contemplava. Pochi passi più in là il vecchio allampanato Cüstant, imbianchino emerito, sagrestano e fabbriciere, patrizio del villaggio di Oria, seduto sulla poppa della sua barca con una sperticata tuba preistorica in testa, con la magica bacchetta in mano. con le gambe penzoloni sull’acqua, raccolta l’anima nel sughero suo proprio, contemplava. Seduto sull’orlo d’un campicello, all’ombra d’un gelso e d’un cappellone di paglia nera, il piccolo, magro, occhialuto don Brazzova, parroco di Albogasio, rispecchiato dall’acqua limpida, contemplava. In un orto di Albogasio inferiore, fra la riva del Ceròn e la riva di Mandroeugn, un altro patrizio in giacchetta e scarponi, il fabbriciere Bignetta, detto el Signoron, duro e solenne sopra una sedia del settecento con la famosa bacchetta in mano, vigilava e contemplava. Sotto il fico di Cadate stava in contemplazione don Giuseppe Costabarbieri. A S. Mamette pendevano sull’acqua e contemplavano con grande attività il medico, lo speziale, il calzolaio. A Cressogno contemplava il florido cuoco della marchesa. In faccia a Oria, sull’ombrosa spiaggia deserta del Bisgnago, un dignitoso arciprete della bassa Lombardia usava passar ogni anno quaranta giorni di vita contemplativa. Contemplava solitario, vescovilmente, con tre bacchette ai piedi, i relativi tre pacifici sugheri, due con gli occhi e uno col naso. Chi passando per l’alto lago avesse potuto discernere tutte queste figure meditabonde, inclinate all’acqua, senza veder le bacchette né i fili né i sugheri, si sarebbe creduto nel soggiorno d’un romito popolo ascetico, schivo della terra, che guardasse il cielo giù nello specchio liquido, solo per maggiore comodità.

In fatto tutti quegli ascetici pescavano alle tinche e nessun mistero dell’avvenire umano aveva per essi maggior importanza dei misteri cui arcanamente alludeva il piccolo sughero, quando, posseduto quasi da uno spirito, dava segni d’inquietudine sempre più viva e in fine di alienazione mentale; poichè dati dei crolli, dei tratti ora avanti ora indietro, pigliava per ultimo, nella confusione delle sue idee, il partito disperato di entrar giù a capofitto nell’abisso. Questi fenomeni avvenivano però di rado e parecchi contemplatori solevano passare delle mezze giornate senza notar la menoma inquietudine nello sughero. Allora ciascuno, senza toglier gli occhi dal piccolo galleggiante, sapeva seguire un invisibile filo d’idee parallelo al filo della lenza. Così avveniva talvolta al buon arciprete di pescar mentalmente una sede episcopale, al Signoron di pescare un bosco ch’era stato dei suoi avi, al cuoco di pescare una certa tinca rosea e bionda della montagna, al Cüstant di pescare una commissione del Governo per dare il bianco al picco di Cressogno. Quanto al Carlàscia, il suo secondo filo aveva generalmente un carattere politico. E questo si comprenderà meglio quando si sappia che anche il filo principale, quello della lenza, suscitava spesso nel suo torbido testone certe considerazioni politiche suggeritegli dal Commissario Zérboli. «Vede, caro Ricevitore» gli aveva detto una volta lo Zérboli ragionando a sproposito sul moto milanese del 6 febbraio. «Lei ch’è un pescatore di tinche può benissimo capire la cosa. La nostra grande monarchia pesca alla lenza. I due bocconi uniti sono la Lombardia e il Veneto, due bei bocconi tondi e solleticanti, con del buon ferro dentro. La nostra monarchia li ha buttati là davanti a sè, in faccia alla tana di quel pesciatello sciocco ch’è il Piemonte. Egli ha abboccato nel quarantotto il boccone Lombardia, ma poi ha potuto sputarlo e cavarsela. Milano è il nostro sughero. Quando Milano si muove vuol dire che c’è sotto il pesciatello. L’anno scorso lo sughero si è mosso ma pochino; il caro pesciatello non aveva fatto che fiutare il boccone. Aspettate, verrà un movimento grande, noi daremo il colpo, ci sarà un poco di strepito e di sbatacchiamento e lo tireremo su, il nostro pesciatello, non ce lo lasceremo scappare più, quel porcellino bianco, rosso e verde!»

Il Biancon ci aveva fatto una gran risata e spesso, mettendosi a pescare, si ruminava, per il proprio innocente piacere, la graziosa similitudine, da cui gli nascevano per solito altri sottili e profondi pensamenti politici. Quella mattina il lago era quieto, propizio per le contemplazioni. Le prime alghe del fondo precipitoso si vedevan diritte, segno che non c’eran correnti. I bocconi, slanciati ben lontano, calarono lentamente a piombo, il filo si distese via via sotto il sughero che gli navigò dietro un poco indicando con spessi anellini i titillamenti dei piccoli cavedini e si mise quindi in pace, segno che i bocconi s’erano adagiati sul fondo e che i cavedini non li toccavan più. Il pescatore posò la bacchetta sul muricciuolo e si mise a pensare all’ingegnere Ribera.

Il Biancòn aveva, a sua insaputa, una discreta dose di mansuetudine in un doppio fondo che Iddio gli aveva fatto nel cuore senza avvertirnelo. Il mondo del resto se ne potè accorgere nel 1859 quando il caro pesciatello si mangiò il boccone Lombardia con l’amo e il filo e la bacchetta e il Commissario e tutto quanto; e il Biancòn, rassegnato, si mise a piantar cavoli nazionali e costituzionali a Precotto. Malgrado questa occulta mansuetudine, posando la bacchetta e pensando che si trattava di pescare quel povero vecchio ingegnere Ribera, egli provò una singolare compiacenza non nel cuore, non nel cervello nè in alcuno dei soliti sensi, ma in un suo particolare senso, puramente I. e R. Davvero, egli non aveva coscienza di sè come di un organismo distinto dall’organismo governativo austriaco. Ricevitore di una piccola dogana di frontiera, si considerava una punta d’unghia in capo a un dito dello Stato; come agente di polizia poi si considerava un occhiolino microscopico sotto l’unghia. La vita sua era quella della monarchia. Se i Russi le facevano il solletico sulla pelle della Gallizia, egli ne sentiva il prurito a Oria. La grandezza, la potenza, la gloria dell’Austria gl'ispiravano un orgoglio smisurato. Non ammetteva che il Brasile fosse più esteso dell’Impero Austriaco, nè che la Cina fosse più popolata, nè che l’Arcangelo Michele potesse prendere Peschiera, nè che Domeneddio potesse prendere Verona. Il suo vero Iddio era l’Imperatore; rispettava quello del cielo come un alleato di quello di Vienna.

Non gli era, dunque, mai entrato il sospetto che l’ingegnere in capo fosse un cattivo suddito. Le parole del Commissario, un vangelo per lui, ne lo persuasero addirittura; e l’idea di trovarsi a portata questo malfido servitore accendeva il suo zelo d’occhio regio e d’unghia imperiale. Si diede dell’asino per non averlo conosciuto prima. Oh ma era ancora in tempo di pescarlo bene; bene bene bene bene! «Lasci fare a me! Lasci fare a me, signor...»

Troncò la frase e afferrò la bacchetta. Il sughero aveva impresso nell’acqua un anello, dolcemente, muovendosi appena; indizio di tinca. Il Biancòn strinse forte la bacchetta tenendo il fiato. Altro tocco al sughero, altro anello più grosso; il sughero va pian piano sull’acqua, si ferma, il cuore del Biancòn batte a furia; il sughero cammina ancora per un piccol tratto, a fior d’acqua e sprofonda; zag! il Biancòn dà un colpo, la bacchetta si torce in arco tanto il filo è tirato da un peso occulto. «Peppina, el gh’è!» grida il Carlàscia perdendo la testa, confondendo il sesso della tinca con quello dell’ingegnere in capo: «el guadèll, el guadèll!» Il sedentario si volta invidioso: «ghe l’ha, scior recitòr?» Il Cüstant si cuoce dentro e non fa motto nè volge la sua tuba. Ratì accorre e accorre anche la signora Peppina portando il «guadèll,» una pertica lunga con una gran borsa di rete in capo, per imborsarvi la tinca nell’acqua; chè il tirarla su di peso col filo sarebbe un rischio disperato. Il Biancòn piglia il filo, lo raccoglie pian piano a sè. La tinca non si vede ancora ma deve esser grossa; il filo viene in su per un paio di braccia, poi è tirato furiosamente in giù; quindi torna a venire, viene, viene, e in fondo all’acqua, sotto il naso dei tre personaggi, balena un giallore, un’ombra mostruosa. «Oh la bella!» fa la signora Peppina sottovoce. Ratì esclama: «Madone, madone!» e il Biancòn non dice parola, tira e tira con cautela. È un bel pescione corto, grosso, dal ventre giallo e dal dorso scuro che viene in su dal fondo quasi supino e per isghembo, con mala volontà.

Le tre faccie non gli piacciono perchè volta loro di colpo la coda e sbattendola fa un’altra punta furiosa verso il fondo. Finalmente, spossato, segue il filo, arriva sotto il muro con la pancia dorata all’aria. La Peppina, rovescioni sul parapetto, stende giù quanto può la sua pertica per imborsar il malcapitato e non le riesce. «Per el müson!» grida suo marito. «Per la cua!» strilla Ratì. A quello strepito, alla vista di quel pauroso arnese, il pesce si dibatte, si tuffa; la Peppina si arrabatta invano, non trova il «müson» non trova la «cua;» il Biancòn tira, la tinca trascinata a galla si aggomitola e con una potente spaccata rompe il filo, strepita via tra la spuma. «Madòne!» sclama Ratì; la Peppina seguita a frugar l’acqua con la sua pertica; «dova l’è sto pess? Dova l’è sto pess?» e il Biancòn ch'era rimasto petrificato col filo in mano, si volta furibondo, tira un calcio a Ratì, afferra sua moglie per le spalle, la scuote come un sacco di noci, la carica d’improperi. «L’è andada, scior recitòr?» fa il sedentario, mellifluo. Il Cüstant volta un poco la tuba, guarda il luogo della catastrofe, torna alla contemplazione del suo pacifico sughero e brontola in tono di compatimento: «minga pratich!»

Intanto la tinca ritorna alle native alghe profonde, malconcia ma libera come il suo simile, il Piemonte, dopo Novara; ed è dubbio se al povero ingegnere in capo toccherà la stessa fortuna.


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