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Parte terza - Il savio parla




CAPITOLO II.


Solenne rullo.



Il venticinque febbraio, giorno della partenza, lo zio Piero si alzò alle sette e mezzo e andò alla finestra. Un denso nebbione pendeva sul lago biancastro e nascondeva le montagne per modo che se ne vedevano solamente due brevi liste nere, una a destra e l’altra a sinistra, fra il lago e la nebbia. «Ahimè!» sospirò lo zio. Non s’era ancora finito di vestire che Luisa entrò e lo pregò, col pretesto del cattivo tempo, di restare, di lasciarla partir sola. La Cia era in grande angoscia, e avea pregato Luisa di insistere sapendo ch’egli era stato côlto, il giorno venti, da forti vertigini e che il ventidue, senza dir niente a nessuno, era andato a confessarsi. Egli s’irritò, convenne tacere, lasciargli fare la sua volontà. Povero zio, aveva goduto sempre una salute di ferro ed era molto apprensivo, il menomo disturbo lo allarmava; ma ora non gli pareva bene che Luisa partisse sola in quelle condizioni di spirito, e si sacrificava per lei. Si vestì, ritornò alla finestra e chiamò trionfalmente Luisa che stava nel giardinetto.

«Alza la testa!», diss’egli. «Guarda su in Boglia!»

In alto, sopra Oria, attraverso la nebbia fumante, si vedeva l’oro pallido del sole sulla montagna e più in alto ancora una trasparenza serena.

«Bella giornata!»

Luisa non rispose e il vecchio discese allegro in loggia, uscì sulla terrazza a goder la battaglia magnifica della nebbia e del sole.

Tutto il lago d’oriente fra la Ca Rotta, l’ultima casa di S. Mamette, a sinistra, e il golfo del Dòi a destra, pareva un mare immenso, bianco. La Ca Rotta traspariva appena, come un fantasma. Al golfo del Dòi cominciava la sottile lista nera scoperta fra il piombo del lago e il nebbione. A poco a poco quel nebbione si faceva turchiniccio, vaghi chiarori rompevano in cielo verso Osteno, in fondo al mare d’oriente tremavano luccicori nuovi, venivan liste, chiazze brune di brezza; un occhio di sole appariva e scompariva sopra Osteno nei vapori turbinanti, ingrandiva rapidamente, splendè vincitore. La nebbia fuggì da ogni parte, a brani e fiocchi. Molti ne passarono davanti a Oria, grandi e veloci, altri si buttarono alla costa, il grosso ripiegò verso l’ultimo levante; colà, dietro e sopra un pesante sipario bianco, le montagne del lago di Como sorsero gloriose nel sereno.

Lo zio Piero chiamò Luisa perchè vedesse lo spettacolo, l’ultima scena splendida del dramma, il trionfo del sole, la fuga delle nebbie, la gloria delle montagne. Egli ammirava patriarcalmente, senza finezze di senso artistico ma con calor giovanile, con sincera enfasi di voce, da vecchio che ha vissuto castamente, che non ha sciupata la freschezza del cuore, che conserva una certa innocenza d’immaginazione. «Guarda, Luisa», esclamò, «se non bisogna dire: Gloria al Padre, al Figliuolo, allo Spirito Santo!» Luisa non rispose, si allontanò subito per non veder quel recinto bianco, di là dall’orto, che l’attirava con violenza, con una tacita voce di rimprovero e di dolore. Ella vi era andata alle sei, vi aveva passata un’ora nella nebbia, seduta sull’erba fradicia.

Lo zio rimase in contemplazione sulla terrazza fino al momento di partire. S’egli fosse stato un poeta presuntuoso avrebbe supposto che la Valsolda gli desse il buon viaggio con uno spettacolo d’addio, volesse mostrarglisi bella come forse non l’aveva veduta mai; ma queste fantasie poetiche a lui non venivano e poi si trattava di un viaggio così breve! No, gli passò invece nella mente l’immagine di Maria, l’idea di vedersela capitar correndo fra le gambe, di prenderla sulle ginocchia, di recitarle la canzonetta antica:


Ombretta sdegnosa
Del Missipipì.......


«Basta!» sospirò. «È stata una gran cosa!» e, chiamato dalla Cia, si avviò lentamente verso il giardinetto dove l’attendeva Luisa, pronta a scendere in barca. «Oh, son qui», diss’egli «e voi guardate bene, mentre staremo via, di non lasciar cadere la casa nel lago.»



Durante il tragitto sul Lago Maggiore, a bordo del San Bernardino, Luisa stette quasi sempre nella sala di seconda classe. Ne salì una volta onde persuadere lo zio Piero a discendere anche lui; ma lo zio Piero, chiuso nel suo zimarrone grigio, non volle muoversi, malgrado l’aria fredda, dal ponte dove stava pacificamente a guardar montagne e paesi, e far un po’ di conversazione con un prete di Locarno, con una vecchierella di Belgirate e con altri viaggiatori di seconda classe. Luisa dovette lasciarvelo e ridiscese, preferendo star sola con i propri pensieri. Più si avvicinava all’Isola Bella più le cresceva dentro un’agitazione sorda, una incerta attesa di tante cose. Come avverrebbe l’incontro con Franco? Quale contegno terrebb’egli con lei? Le farebbe i discorsi che le aveva fatto lo zio? Le lettere erano molto pietose e tenere ma chi non sa che si scrive in un modo e si parla in un altro? Come, dove, passerebbero la sera? E poi l’altra cosa, la cosa terribile a pensare...? Tutte queste preoccupazioni salivano, salivano, tendevano a diventar dominanti, a porsi in antagonismo con l’immagine del Cimitero di Oria che ogni tratto ritornava impetuosa come a riprendere il suo. Alla stazione di Cannero Luisa si udì sul capo un grande strepito di passi, un grande chiasso di voci e di grida, salì a vedere dello zio. Erano militari richiamati alle bandiere, venuti al battello con due grandi barche. Altre barchette portavano donne, bambini, vecchi, che salutavano e piangevano. I soldati, la maggior parte bersaglieri, bei giovinotti allegri, rispondevano ai saluti, gridando: «viva l’Italia!» promettevano regali da Milano. Una vecchia, che aveva tre figli fra quei soldati, gridava loro, tutta scarmigliata ma non piangente, che si ricordassero del Signore e della Madonna. «Sì» brontolò un vecchio sergente che li accompagnava «ca s’ricordo del Signour, d’la Madonna, del Vesco e del prevost!» I soldati, molto pratici del «prevost», la prigione militare, risero della barzelletta e il battello partì. Grida, sventolar di fazzoletti e poi un canto, un canto potente di cinquanta voci gagliarde:


Addio, mia bella, addio,
L’armata se ne va.


I soldati si erano tutti ammucchiati a prora su cataste di sacchi e barili, quale seduto, quale sdraiato, quale in piedi, e cantavano a squarciagola con l’accompagnamento cupo delle ruote del vapore, che filava diritto giù verso lo sfondo di cielo cui le sottili colline d’Ispra dividono dall’immenso specchio dell’acque verso il Ticino. Quei giovinotti avevano a passarlo presto, il Ticino, probabilmente al grido di Savoia, fra una furia di cannonate. Molti di loro erano attesi laggiù, sotto quel cielo sereno, dalla morte; ma tutti cantavano allegri e solo il rumor cupo delle ruote del vapore pareva saperne qualchecosa. Le libere montagne piemontesi lungo le quali filava il battello parevano fiere e paghe, benchè nell’ombra, di aver dato i propri figli alle schiave montagne lombarde, tragiche nell’aspetto benchè illuminate dal sole. Luisa si sentì un lieve formicolio nel sangue, un palpito del suo patriottismo ardente d’una volta. E quelle madri che avevan visto partire i loro figli così? Prevenne il proprio pensiero, si disse subito che anche lei avrebbe donato volentieri un figlio all’Italia, che quelle madri non potrebbero in nessun caso paragonarsi a lei. Ma com’era diverso di leggere in Valsolda una lettera che parlava di guerra e di sentir veramente il soffio e il rumor della guerra intorno a sè, di respirarla nell’aria! Nella quieta della Valsolda era un’ombra senza realtà; qui l’ombra pigliava corpo. Qui il dolore privato di Luisa, il dolore immenso che le riempiva intorno l’aria morta di Oria, s’impiccioliva a fronte della emozione pubblica ed ella lo sentiva e ciò le recava una molestia, un malessere indefinibile. Era paura di perdere parte del dolore proprio, come dire parte di se stessa? Era desiderio di sottrarsi ad un paragone che le ripugnava di fare? In pari tempo l’idea che Franco andrebbe a questa guerra, l’idea onde poco ella si era commossa in Valsolda, prendeva pure una realtà nuova nella sua mente, le dava delle scosse al cuore, lottava essa pure con l’immagine del Camposanto di Oria. Per la prima volta l’immagine del passato non era più sola, assoluta, onnipotente signora dell’anima sua; ne avesse pure sdegno quest’anima e rincrescimento, nuove immagini, immagini del presente e del futuro, le facevano assalto.

Lo zio cominciò ad aver freddo e discese sotto coperta.

«Fra poco più d’un’ora» diss’egli, «saremo a Isola Bella.»

«Sei stanco?»

«Niente affatto. Sto benone.»

«Però andrai a letto presto questa sera?»

Lo zio distratto, non rispose. Invece dopo un poco esci a dire: «Sai cosa pensavo? Pensavo che dovrebbe capitare un’altra Maria.»


Luisa che gli era seduta accanto, si alzò di botto, fremente, e andò a guardar fuori dal finestrino in faccia, voltando le spalle allo zio. Questi non capì affatto, credette a un senso d’imbarazzo e si addormentò nel suo angolo. Il battello tocca Intra. Adesso prima dell’Isola non c’è che Pallanza. Il battello rade la costa; Luisa guarda dal finestrino ovale passar le rive, le case, gli alberi. Come si corre, come si corre!

Pallanza. Il battello resta fermo cinque minuti.

Luisa sale sul ponte, domanda quando si arriverà all’Isola Bella. Il battello non toccherà Suna nè Baveno. Sarà un viaggio di pochi minuti. E il battello di Arona, quando arriva? Pare che sia in ritardo. Ella scende e sveglia lo zio che sale sul ponte con lei. L’ultimo tratto del viaggio è fatto in silenzio; lo zio sta a guardar Pallanza che s'allontana e Luisa ha fissi gli occhi sull’Isola che si avanza, non vede altro.

Il battello giunse all’approdo dell’Isola Bella alle tre e quaranta minuti. Nessun indizio del battello di Arona. Un inserviente disse a Luisa che quel battello era sempre in ritardo per colpa del treno di Novara che non aveva quasi più regola, causa i movimenti militari. Nessuno discese all’Isola, nessuno era sulla riva tranne l’uomo addetto allo sbarco. Partito il battello, accompagnò egli stesso i due viaggiatori all’albergo del Delfino. Era un caso, diss’egli, che trovassero il Delfino aperto a quella stagione. Ci svernava una grossa famiglia inglese. Pareva l’isola del Silenzio, del resto. Il lago le taceva intorno immobile, la spiaggia era deserta, sui ballatoi delle povere vecchie casucce ammonticchiate sul porto, fra un bastione rotondo del giardino e l’albergo, non si vedeva persona viva. Gl’inglesi erano fuori, in barca; l’albergo taceva come la riva e l’acqua. I nuovi venuti ebbero due camere grandi del secondo piano, a mezzogiorno, di fronte al malinconico stretto fra l’isola e la costa boscosa che va da Stresa a Baveno. La prima camera, sull’angolo di ponente, aveva una finestra verso la chiesetta di S. Vittore, che sorge a fianco dell’albergo, e l’isolotto lontano dei Pescatori. Lo zio Piero si piantò a quella finestra contemplando l’isolotto, il mucchietto di case sporgente dallo specchio del lago e appuntato in un campanile, le grandi montagne di Val di Toce e di Val di Gravellone, mezzo nascoste da una nebbiolina penetrata di sole. Luisa, visto che lì v’eran due letti, passò rapidamente nell’altra camera dov’era un’alcova con due letti pure. «Ecco» disse lo zio Piero entrandovi un momento dopo «questa va bene per voialtri.» Luisa domandò sotto voce all’albergatore se non si potessero avere tre camere invece di due. No, non si potevano avere. «Ma se così va bene! Ma se così va benone!» ripeteva lo zio. «Voi qui e io là.» Luisa tacque e l’albergatore se n’andò. «Non vedi che hai l’alcova come a casa?» Non gli veniva in mente, all’uomo patriarcale, che per Luisa la sola vista di quell’alcova fosse un tormento. Ella gli rispose che preferiva l’altra camera, più chiara, più allegra. «Amen» disse lo zio «fate vobis. M’inalcoverò io.»

Anche quell’angolo dell’albergo ritornò nel silenzio. Luisa si pose alla finestra. Il battello di Arona doveva esser vicino, l’uomo di prima s’incamminava lentamente verso lo sbarco e poco dopo si udì un rumor lontano di ruote. Lo zio disse a Luisa che si sentiva stanco e rimaneva in camera.

Ella discese verso il ponte dello sbarco e si fermò presso una casupola che toglieva di vedere il battello di cui udiva il fragore. A un tratto la prora del San Gottardo le uscì davanti lentamente e si fermò. Luisa riconobbe suo marito fra un gruppo di persone che gli facevano un grande chiasso intorno. Franco la vide, saltò sul ponte, corse a lei che fece due passi avanti. Si abbracciarono, egli muto, cieco d’emozione, ridente e lagrimoso, pieno di gratitudine e anche trepido, incerto circa l’animo di lei, circa il modo di regolarsi; ella più composta, pallidissima e seria. «Addio» ripeteva «addio» e s’incamminò verso l’albergo. Venne allora da Franco una furia di domande sul suo viaggio, sul passaggio del confine, prima; poi sullo zio. Quando nominò lo zio, Luisa alzò il viso e disse: «guarda!» Lo zio era lassù alla finestra e gittò abbasso un addio sonoro agitando il fazzoletto. «Oh!» fece Franco, stupefatto; e prese la corsa.

Lo zio lo aspettò sul pianerottolo della scala con una espressione di contentezza persino sul ventre pacifico. «Ciao, neh» diss’egli e gli prese le mani, gliele scosse tenendolo a distanza. Non avrebbe voluto baci, come se in quel momento significassero ringraziamenti; ma non potè difendersi dall’impeto di Franco: «Figurati», diss’egli appena svincolatosi dalle braccia del giovane «se una Maironi può viaggiare senza maggiordomo! Son poi anche venuto ad arruolarmi nei bersaglieri.» E l’uomo stanco discese le scale dicendo che andava a ordinare il pranzo.

Non v’era canapè nella stanza degli sposi. Franco trasse Luisa a sedere sul letto, le sedette accanto, le cinse con un braccio le spalle, incapace di un discorso qualsiasi, non sapendo dire che «ti ringrazio, ti ringrazio» non trovando che impetuose carezze, impetuosi baci, nomi di tenerezza. Luisa tremava a capo chino, non gli rispondeva in alcun modo ed egli si frenò, le prese il capo come una cosa santa, le andò sfiorando con le labbra, qua, là, i capelli bianchi che vedeva. Ella capì che cercava i capelli bianchi, intese quei timidi baci, si commosse, le parve sentirsi sgelare il cuore, fu presa da sgomento, volle difendersi più contro sè stessa che contro Franco. «Sai» disse «ho il cuore tanto freddo, non volevo neanche venire, non volevo lasciar Maria nè che tu avessi l’amarezza di trovarmi così. È stato causa lo zio che venissi. Voleva venir solo e allora mi sono decisa.»

Dette le parole crudeli, sentì levarsi dai suoi capelli le labbra di Franco, levarsi il braccio dalle sue spalle. Tacquero ambedue; poi Franco mormorò con dolcezza:

«Sono tredici ore. Forse dopo non ti darò noia mai più.» In quel punto entrò lo zio Piero e annunciò che il pranzo era pronto. Luisa prese la mano di suo marito, gliela strinse in silenzio, non con la stretta d’un amante ma pure abbastanza forte per significargli ch’era una commossa risposta.

A pranzo nè Luisa nè Franco mangiarono. Invece lo zio mangiò con appetito e parlò molto. Egli non approvava che Franco prendesse le armi. «Che soldato vuoi riuscire tu?» gli diceva. «Cosa farai senza la canfora, l’acqua sedativa e il cossa soja mi?» Franco dichiarò che aveva buttato via tutti i rimedi, che si sentiva di ferro, che sarebbe stato il più robusto soldato del 9.° «Sarà!» brontolò lo zio. «Sarà! E tu, Luisa, non dici niente?» Luisa rispose ch’era persuasa di quanto aveva detto suo marito. «N’occor alter!» fece lo zio. «Evviva!» Egli aveva poi anche un gran concetto della potenza austriaca e non vedeva roseo come Franco. Secondo Franco non c’era da dubitare della vittoria. Egli aveva veduto un aiutante di Niel venuto segretamente a Torino, gli aveva udito dire ad alcuni ufficiale piemontesi di Stato Maggiore: «Nous allons supprimer l’Autriche.» Certo bisognava lasciare almeno cinquanta mila cadaveri italiani e francesi tra il Ticino e l’Isonzo.

«Scusi, signore» disse il cameriere che serviva. «Mi pare che il signore parlasse di entrare nel 9.° reggimento?»

«Sì.»

«Brigata Regina. Brava brigata. Io ho servito nel 10°. Ci siamo fatti onore nel 1848, ehi! Goito, Santa Lucia, Governolo, Volta! Adesso tocca a Loro.»

«Faremo il possibile.»

Luisa ebbe un lieve brivido. Gl’inglesi che pranzavano alla tavola vicina intesero il dialogo, guardarono Franco. Per qualche momento nessuno parlò nella sala; vi passò la visione d'una colonna di fanteria lanciata alla baionetta, fra la mitraglia.

Dopo pranzo lo zio rimase all’albergo per il suo solito chilo e Franco uscì con Luisa. Presero a destra, verso il Palazzo. Faceva piuttosto scuro, cadeva qualche rara gocciolina, gli scalini che mettono dalla riva al cortile della villa erano umidi, si sdrucciolava. Franco offerse il braccio a sua moglie che lo prese in silenzio. Si fermarono tra il cortile deserto e la scala dello sbarco a contar le ore che suonavano all’orologio del Palazzo. Sei. Erano passate due ore, ne restavano altre undici; poi veniva la separazione, l’ignoto. Si incamminarono lentamente, sempre senza parlare, per il viale diritto fra il lago e il fianco del Palazzo a quell’angolo che guarda l’isola dei Pescatori, dove si vedeva già qualche lume. Due donne venivano loro incontro a braccetto, chiacchierando. Franco le lasciò passare e poi domandò a sua moglie se si ricordava dei Rancò.

Due anni prima del loro matrimonio avevano fatto con altri amici una passeggiata a Drano e ai Rancò, alti pascoli di Valsolda, che si attraversano per salire al Passo Stretto. Avevano avuto una disputa vivace, un’ora di broncio e di tormento. «Sì» rispose Luisa. «Mi ricordo.» Sentirono ambedue nello stesso momento quanto l’ora presente fosse diversa da quella e quanto ciò fosse doloroso a dire. Non parlarono più fino all’angolo. Un suono di campane veniva dall’isola dei Pescatori. Franco lasciò il braccio di sua moglie, si appoggiò al parapetto. Il lago nebbioso taceva, nulla si vedeva oltre i lumi dell’altra isola. Il lago, la nebbia, quei lumi, quelle campane che parevano di una nave perduta in mare, il silenzio delle cose, le stesse rade minute goccioline di piova, tutto era così triste.

«E ti ricordi poi?» mormorò Franco senza voltar il viso. Anche Luisa s’era appoggiata al parapetto. Tacque un poco indi rispose sotto voce:

«Sì, caro.»

Ah vi era nel suo caro un lieve recondito principio di calore, di emozione affettuosa. Franco lo sentì, n’ebbe una scossa di gioia ma si contenne.

«Penso» riprese «alla lettera che t’ho scritto subito, appena ritornato a casa e alle tre parole che mi hai dette il giorno dopo, a Muzzaglio, quando gli altri ballavano sotto i castagni e tu mi sei passata vicina per andar a prendere il tuo scialletto che avevi posato sull’erba. Te le ricordi?»

«Sì.»

Egli le prese una mano, se la recò alle labbra.

«Ti ringrazio ancora» diss’egli «per quelle tre parole. Allora sono state la vita per me. Ti ricordi che nella discesa t’ho dato il braccio e che c’era chiaro di luna?»

«Sì.»

«E ti ricordi che ho fatto uno sdrucciolone prima di arrivare al ponte e che tu mi hai detto: caro signore, tocca a Lei di sostenere me?»

Luisa non rispose, gli strinse la mano.

«Non sono stato buono a nulla» diss’egli tristemente. «Non ti ho saputo sostenere.»

«Hai fatto tutto quello che potevi.»

La voce di Luisa, dicendo così, era fioca, ma ben diversa da quando ell’aveva detto: il mio cuore è freddo. Suo marito le riprese il braccio, ritornò con lei, a passi lenti, verso lo sbarco. Il caro braccio non era inerte quanto prima, tradiva un’agitazione, una lotta. Franco si fermò, e disse piano:

«E se vado dalla Maria? Cosa le devo dire di te?»

Ella fu presa da un tremito, gli posò il capo sulla spalla e sussurrò: no, resta.» Franco non intese, domandò: «cosa?». Non si udì rispondere, piegò adagio adagio il viso, vide le labbra di lei porgersi, vi posò le sue. Il cuore gli battè, gli battè forte, più forte ancora di quando aveva baciato Luisa la prima volta come amante. Rialzò il viso, non poteva neppur parlare. Finalmente gli riuscì di metter fuori queste parole: «le dirò che hai promesso....» «No» mormorò Luisa, accorata «quello non lo posso, non domandarmelo, non è più possibile.»

«Cosa, non è possibile?»

«Oh, intendi bene! Anch’io ho inteso bene cosa volevi dir tu.»

Ella riprese a camminare, volendo staccarsi da quel discorso. Tenne però il braccio del marito, che la fermò.

«Luisa!» diss’egli, severo, quasi impetuoso. «Mi lascerai partire così? Sai cosa vuol dire per me partire così?»

Ella ritirò allora lentamente il braccio di sotto quello di lui e si voltò a destra verso il parapetto, vi si appoggiò guardando l’acqua come a Oria, quella sera. Franco le restò diritto accanto, attese un poco e poi le domandò di rispondergli.

«Per me sarebbe meglio finirla nel lago» diss’ella, amaramente. Suo marito le cinse la vita con un braccio, la strappò dal parapetto e la lasciò libera, levò il braccio in aria. «Tu?» esclamò con sdegno. «Parlar così, tu che dicevi sempre di prender la vita come una guerra? E il tuo modo di combattere sarebbe questo? Io credevo una volta che la più forte fossi tu. Adesso intendo che sono io il più forte. Molto più! Sai neanche immaginare cosa ho sofferto io in questi anni? Sai neanche immaginare....» Sentì la voce sfuggirgli un momento ma si padroneggiò e proseguì: «Sai neanche immaginare cosa tu sei per me e cosa farei per non darti senza necessità un piccolo dolore, mentre pare che a te non importi nulla di lacerarmi l’anima?» Ella gli si gettò fra le braccia. Nel silenzio che seguì, rotto solo da uno spasimo di singhiozzi repressi, Franco udì venir gente e durò fatica a staccarsi sua moglie dal petto, a riprender con essa il cammino dell’albergo. «Tu, tu!» sussurrò. «E non vuoi che desideri di morire io quando posso morir bene, per il mio paese?» Luisa gli stringeva il braccio senza parlare. Incontrarono due giovani, amanti, che passando loro accanto li guardarono curiosamente. La ragazza sorrise. Giunti agli scalini che scendono sul piazzaletto davanti a S. Vittore, udiron voci di ragazzi e di donne. Luisa si fermò un momento sul primo scalino e disse piano le tre parole di Muzzaglio:

«Ti amo tanto.»

Franco non rispose che con una stretta del braccio. Discesero gli scalini adagio adagio, rientrarono all’albergo del Delfino.




Alcuni giovinotti che bevevano, fumavano e schiamazzavano si alzarono all’apparir di Franco e di Luisa, si fecero loro incontro tutti, tranne uno che approfittò del momento buono per vuotare l’ultima bottiglia. «Signora» disse il primo che si presentò a Luisa «Suo marito Le avrà già annunciato i Sette Sapienti.» Successe subito un gran baccano perchè Franco aveva dimenticato di dire a Luisa che i suoi amici eran venuti con lui da Torino e s’erano spinti, per discrezione, fino a Pallanza, promettendo una visitina d’omaggio alla signora. «El più sapiente son mi», disse alzandosi il Padovano, che aveva vuotata la bottiglia. «Vualtri fè bordelo e non bevì; mi bevo e no fazzo bordelo.» «Quello, signora» disse un bel giovane «è, com’Ella bene intende, l’asino sapiente della compagnia.»

«Tasi, Fante! - Signora!» fece il Padovano avanzandosi e salutando.

«Ah, Lei è il signor Fante di bastoni?» disse Luisa, sorridendo al bel giovane. Ella fu affabile con tutti, ebbe un gran successo dicendo a un uomo alto, magro, dai baffi arricciati: «Lei dev’essere il signor Caval di Spade?»

«No xe vero, signora» esclamò il Padovano mentre gli altri applaudivano «che se vede la bestia?»

Erano venuti da Pallanza in barca e volevano ripartire subito ma Franco fece portare altre due bottiglie e il chiasso divenne così enorme malgrado la presenza di Luisa che l’albergatore venne a pregare, per amore de’ suoi Inglesi, di non far tanto «rabello.» Il Padovano gli snocciolò dolcemente una litania placida di vituperi padovani. Colui non capì, fece un risolino stupido e se n’andò.

I Sapienti eran venuti sul lago per godere anche loro una giornata di libertà prima di arrolarsi. Entravano tutti, meno il Caval di Spade, nello stesso reggimento. Bevvero al 9°. fanteria, alla brigata Regina, a tutti i «pistapauta» nazionali nel presente e nell’avvenire e discussero sul luogo e il nome della prima battaglia che si darebbe agli austriaci. Tutti i voti meno quello del Padovano furono per una «battaglia del Ticino». Il Padovano voleva una battaglia di Gorgonzola. «No sentì che nome militar? Battaglia di Gorgonzola erborinato. Asèo!»

Era scritto nel Libro del Destino ch’egli sarebbe caduto appunto nella prima battaglia, a Palestro, con una scheggia di granata nella coscia, combattendo da buon soldato a due passi dal colonnello Brignone. Quei giovani parlavano di battaglie con entusiasmo ma senza spacconate, parlavano della futura Italia dicendo alquante corbellerie, ma si sentiva che non importava loro un fico secco della vita pur di farla libera, questa vecchia patria, e grande. «Ghe pàrele teste da far l’Italia?», disse il Padovano a Luisa. «Gnanca so marìo, sala. Un bon toso ma par far l’Italia, gnente. La vedarà che razza de Italia che vien fora! I nostri fioi ne farà el monumento ma dopo vegnarà, capissela, con licenza, quelle figure porche de quei nevodi, che me par de sentirli: «Che da can, i dirà, che i la ga fata, quei veci insensai, sta Italia!»

I Sapienti partirono dopo essersi accordati con Franco di trovarsi l’indomani mattina sul primo battello. Franco li accompagnò alla barca e intanto sua moglie salì a vedere lo zio Piero. Egli aveva dato l’incarico all’albergatore di avvertire i suoi nipoti che, sentendosi molto sonno, era andato a letto. Infatti Luisa lo udì dormire rumorosamente. Posò il lume e attese Franco.

Egli venne subito e fu sorpreso di udire che lo zio dormiva già. Avrebbe voluto pigliar congedo da lui prima d’andar a letto, perchè il battello partiva di gran mattino, alle cinque e mezzo. L’uscio della camera era chiuso, tuttavia Luisa pregò suo marito di camminare in punta di piedi e di parlar sotto voce. Gli raccontò ciò che le aveva detto la Cia. Lo zio aveva bisogno di riposo. Ella sperava che sarebbe rimasto a letto fino alle nove o alle dieci e contava partire al tocco, andar a dormire a Magadino per non affaticarlo troppo. Insistette molto su queste apprensioni per la salute dello zio, parlava, parlava, nervosamente, volendo tener lontani altri discorsi, tener lontane con quest’ombra carezze troppo tenere. In pari tempo andava e veniva per la camera, pigliando e posando le stesse cose, un po’ per nervosità, un po’ con la intenzione che suo marito si coricasse prima di lei. Egli pareva dal canto suo molto occupato di una borsa a tracolla che non riusciva ad aprire. Finalmente l’aperse, chiamò sua moglie a sè, le diede un rotolo d’oro, cinquanta pezzi da venti lire. «Capisci» le disse «che almeno per qualche mese non potrò mandar nulla. Questi non sono miei, li ho avuti a prestito.» Poi trasse di tasca una lettera suggellata. «E questo è il mio testamento» soggiunse. «Ho poco ma devo pur disporre anche di quel poco. Vi è un legato solo, la spilla di mio padre che hai tu, per lo zio Piero; e vi è il nome della persona cui devo le mille lire. A parte del testamento ci sono due righe particolari per te. Ecco.» Egli parlava con dolcezza grave, senza commozione. A lei, nel prendere la lettera, le mani tremavano. Gli disse «grazie», cominciò a sciogliersi le trecce, poi se le riannodò, non sapeva bene che si facesse, combattuta dal fantasma della sua morta e da un’altra visione di guerra e di morte. Disse con voce rotta che dovendo alzarsi presto per accompagnarlo al vapore pensava di non sciogliersi le trecce e di coricarsi vestita. Franco non fece parola, pregò brevemente e si cominciò a spogliare, si levò dal collo una catenella e una crocellina d’oro ch’erano state di sua madre. «Tienle tu», diss’egli porgendole a Luisa. «È meglio. Non si sa mai, potrebbero cadere in mano ai Croati.» Ella inorridì, tremò, esitò un istante, gli si gettò al collo, glielo strinse da soffocarlo.



Il cameriere bussò all’uscio degli sposi verso le quattro e mezzo. Alle cinque Franco entrò col lume nella camera dello zio ch’era svegliato. Prese congedo da lui e propose quindi a Luisa che anche il loro congedo seguisse lì. Ell’aveva nel viso e anche nella voce una espressione di stupore grave, dolente. Non si commosse, non pianse, abbracciò e baciò suo marito come trasognata e come trasognata discese le scale insieme a lui. Passò forse in esso un lampo del pensiero che occupava l’animo di lei? Se ciò avvenne fu nel salotto dell’albergo mentre prendeva il caffè e sua moglie gli sedeva in faccia. Parve che scoprisse qualche cosa in quello sguardo, in quella fisionomia, perchè si fermò a contemplarla con la tazza di caffè in mano e poi gli si diffuse sul volto una tenerezza, un’ansia, una commozione inesprimibile. Ella, manifestamente, non desiderava di parlare ma egli sì. Una parola occulta gli fremeva in tutti i muscoli del viso, gli luceva negli occhi; la bocca non osò dir niente.

Discesero al ponte di sbarco tenendosi per mano, si appoggiarono al muro cui s’era appoggiata Luisa il giorno prima. Quando udirono il fragore delle ruote si abbracciarono per l’ultima volta, si dissero addio senza lagrime, piuttosto sconvolti dal loro comune pensiero occulto che afflitti dalla separazione. Il battello arrivò con fracasso, furon gittate e legate le corde. Una voce gridò: Avanti chi parte! Un bacio ancora: «Dio ti benedica!», disse Franco e saltò sul battello.

Ella rimase fino a che fu possibile udire il rumor delle ruote che si allontanavano verso Stresa. Poi ritornò all’albergo, sedette sul letto, stette lì come petrificata in quest’idea, in questa istintiva certezza ch’era madre una seconda volta.

Benchè fosse appunto la cosa tanto temuta, non si può dire che ne provasse afflizione. Lo stupore di sentirsi dentro una voce così forte, chiara e inesplicabile, vinse in lei ogni altro sentimento. Era sbalordita. Aveva sempre pensato, dopo la morte di Maria, che il Libro del Destino nulla potesse più avere di nuovo per lei, che certe intime fibre del suo cuore fossero morte. E adesso una Voce arcana parlava proprio là dentro, diceva: Sappi che nel Libro del tuo destino una pagina si chiude, un’altra si apre. Vi è ancora per te un avvenire di vita intensa; il dramma, che tu credevi finito al secondo atto, continua e dev’essere straordinario se Io te lo annuncio». Per tre ore, sino a che lo zio Piero non la chiamò, Luisa restò assorta in questa voce.

Lo zio si alzò alle nove e mezzo. Stava bene. Il tempo era umido ancora, quasi piovigginoso, ma egli non volle saperne di restar in casa, come Luisa avrebbe desiderato, sino all’ora di partire per Magadino. Sapeva, per averne chiesto all’albergatore, che dalle nove in poi si poteva visitare il giardino, e alle dieci, preso il suo latte, vi si avviò con Luisa. Passando da S. Vittore desiderò entrarvi, veder le pitture. Vi si stava dicendo messa, il celebrante si voltava a dire: «Benedicat vos omnipotens Deus». Lo zio si fece un gran crocione, ascoltò l’ultimo Vangelo, rinunciò a veder le pitture perchè v’era poca luce e uscì di chiesa dicendo con la sua giovialità solita: «eccomi felice e contento d’essere andato a farmi benedire.»

Non era possibile aver fretta, con lui. Si fermava ad ogni passo, guardando tutto che avesse forma d’arte, tutto che fosse disposto per venir guardato. Contemplò la facciata della chiesa, la triplice gradinata dello sbarco Borromeo, ciascuno dei tre lati del cortile e la gran palma nel mezzo, che Luisa, con grave scandalo di lui, non aveva neppur veduta passando di là insieme a Franco, la sera prima. Quando il custode li introdusse nel Palazzo ci vollero almeno dieci minuti per salire, ammirando, lo scalone. Come ne fu a capo uscì un raggio di sole e il custode propose di approfittarne per vedere il giardino. Prese a sinistra e per una fila di sale vuote accompagnò i visitatori al cancello di ferro, suonò il campanello. Venne un giardiniere, un giovinetto educato che piacque molto allo zio perchè gli spiegava tutto con buon garbo e lo zio non domandava poco. Ci vollero cinque minuti per l’albero della canfora, presso l’entrata. Luisa ci soffriva, temeva che lo zio si stancasse troppo e si stancava moltissimo ella stessa di dover guardare tante piante, udire tanti nomi latini e volgari, fare attenzione allo zio, mentre i suoi pensieri avrebbero voluto silenzio e solitudine. Il giardiniere propose di salire al Castello di Nettuno. Lo zio avrebbe desiderato veder da vicino il liocorno dei Borromei che s’impenna lassù ma c’erano parecchi scalini a fare, l’aria era pesante ed egli esitava. Luisa approfittò di quell’esitazione per chiedere al giardiniere dove avrebbero trovato un sedile. «Qui sotto,» rispose colui «a sinistra, sulla piazza degli Strobus. Lo zio si lasciò persuadere a discendere su questa piazza degli Strobus.

Era stanco ma non tralasciava di guardar tutto e d’interrogar su tutto. Avviandosi verso gli Strobus udì venir da lontano, dalla parte dell`Isola Madre, un rullo di tamburi e ne domandò al giardiniere. Erano i tamburi della Guardia Nazionale di Pallanza, che faceva gli esercizi sulla riva. «Adesso si fa per giuoco» disse il giovinetto

«Mica per giuoco, ma insomma.....! Il mese venturo faremo sul serio. Dobbiamo dare una lezione a una bestia grossa. Eccolo là, quel mostro.» Il mostro era il vapore austriaco da guerra «Radetzki» detto dai riverani piemontesi «Radescòn.» «Entra adesso nel porto di Laveno» disse il giovinetto. «Viene da Luino. Vengano qui se vogliono vederlo bene.»

Lo zio sapeva di non avere occhi bastantemente buoni e sedette sul primo sedile che trovò sotto gli Strobus, posto a ridosso di una macchia di bambù e fiancheggiato da due altre macchie di grandi azalee. Dietro ai bambù, fra i grossi tronchi distorti degli Strobus, si vedeva tremolare lo specchio delle acque bianche sino alla lista nera delle colline d’Ispra. Il cielo, fosco a settentrione, era chiaro laggiù. Luisa e il giardiniere andarono fino al cancello stemmato che guarda la verde isola Madre, Pallanza e il lago superiore. Luisa si affacciò alla gran distesa delle acque plumbee, incoronate di colossi nebbiosi dal gruppo del Sasso di Ferro sopra Laveno ai monti di Maccagno, alle nevi lontane dello Spluga. Del Radetzki si vedeva più il fumo che il corpo. I tamburi di Pallanza rullavano sempre. Lo zio Piero chiamò il giardiniere e Luisa andò ad appoggiarsi al parapetto di fianco al cancello, presso il tasso che sale dal ripiano inferiore. L’albero le toglieva la vista del chiaro levante; ella era contenta di esser finalmente sola, di riposar i suoi sguardi e i suoi pensieri nel grigio delle montagne lontane e delle acque immense. Il giardiniere tornò dopo un momento per mostrarle le gialle acacie fiorite e le eriche bianche del ripiano inferiore, pure fiorite. «Le bruyères blanches portano fortuna», diss’egli. Vedendo che Luisa, distratta, non gli badava, si allontanò verso la serra delle begonie. «Vecchio strobus», diss’egli parlando forte per farsi udire dai forestieri, ma senza voltarsi. «Vecchio strobus colpito dal fulmine. Se vogliono veder il giardino privato...»

Luisa si alzò e andò a prender lo zio per dargli il braccio se ne avesse bisogno. Il giardiniere che stava aspettando presso l’entrata del boschetto di lauri, vide la signora muovere verso il signore seduto, affrettare il passo, precipitarsi con un grido sopra di lui.

Come la vecchia innocente pianta, anche lo zio Piero era stato colpito dal fulmine. Il suo corpo era appoggiato alla spalliera del sedile, la testa gli toccava il petto col mento, gli occhi erano aperti, fissi, senza sguardo. Era proprio stato uno spettacolo di addio quello che la sua Valsolda gli aveva offerto. Lo zio Piero, il caro venerato vecchio, l’uomo savio, l’uomo giusto, il benefattore de’ suoi, lo zio Piero era partito per sempre. Egli era venuto, sì, ad arruolarsi, Iddio lo voleva in una milizia superiore, ed ecco era suonato l’appello, egli aveva risposto.

I tamburi di Pallanza rullavano, rullavano la fine di un mondo, l’avvento di un altro. Nel grembo di Luisa spuntava un germe vitale preparato alle future battaglie dell’era nascente, ad altre gioie, ad altri dolori da quelli onde l’uomo del mondo antico usciva in pace, benedetto all’ultimo momento, senza saperlo, da quell’ignoto prete dell’Isola Bella, che mai, forse, non aveva detto le sante parole a un più degno.


FINE

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