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Guy de Maupassant - Pierre e Jean (1887)
Traduzione dal francese di Giacomo Caccavale (1935)
I
II

«Accidenti!» esclamò all’improvviso papà Roland, che, da un quarto d’ora, se ne stava immobile, con gli occhi fissi sull’acqua e a tratti sollevava leggermente la lenza immersa nel mare.

La signora Roland, assopita a poppa della barca, accanto alla signora Rosémilly, invitata alla partita di pesca, si svegliò e volgendo il capo verso il marito:

«Allora?... Gérome? di’...»

Il brav’uomo, infuriato, rispose:

«Non abboccano più! Da mezzogiorno non ho preso più niente. Si dovrebbe pescare soltanto fra uomini... Le donne finiscono sempre col farci imbarcare troppo tardi.»

I due figli, Pierre e Jean, che, l’uno a sinistra e l’altro a destra della barca, tenevano le lenze attorcigliate all’indice, scoppiarono a ridere contemporaneamente. Jean disse:

«Non sei galante con la nostra ospite, papà.»

Il signor Roland confuso si scusò.

«Perdoni, signora Rosémilly: son fatto così. Invito le signore, perché mi piace stare con loro e poi, appena mi sento l’acqua sotto i piedi, non penso ad altro che ai pesci.»

La signora Roland del tutto sveglia contemplava, con occhi inteneriti, l’ampio orizzonte di rocce e di mare.

«Eppure,» mormorò, «hai fatto una bella pesca.»

Ma il marito scoteva il capo per dire di no, e gettava un’occhiata affettuosa alla cesta, dove i pesci palpitavano ancora un poco, con un lieve rumore di squame vischiose, di pinne sollevate, di deboli sforzi impotenti e di sbadigli nell’aria mortale.

Papà Roland strinse il paniere tra le ginocchia, lo piegò da un lato, fece scorrere fino all’orlo la massa argentea dei pesci, per vedere quelli sul fondo. Il loro palpito d’agonia si accentuò e così il forte odore dei loro corpi, un sano sentore di salmastro, salì dal ventre pieno della cesta.

Il vecchio pescatore lo annusò avidamente, come fosse profumo di rose, ed esclamò:

«Questi sì son freschi, perdiana!»

Poi chiese:

«E tu, quanti ne hai presi, dottore?»

Suo figlio Pierre, il maggiore, un uomo di trent’anni, con le basette nere, tagliate come quelle dei magistrati, i baffi e il mento rasati, disse:

«Poca roba! Tre o quattro.»

Il padre si rivolse al minore.

«E tu, Jean?»

Jean, un ragazzone biondo, con una gran barba, molto più giovane del fratello, sorrise e mormorò:

«Più o meno come lui, quattro o cinque.»

Ogni volta dicevano la stessa bugia che mandava in estasi papà Roland; costui, arrotolata la lenza allo scalmo d’un remo, dichiarò, incrociando le braccia:

«Basta! Non pescherò mai più di pomeriggio. Passate le dieci, è finita. Non abbocca più lo sciagurato: fa la siesta al sole.»

E guardava il mare, intorno a sé, con un’aria soddisfatta, da proprietario.

Era un ex gioielliere parigino. Uno smodato amore per la navigazione e per la pesca lo aveva strappato al banco del negozio, non appena ebbe messo da parte a sufficienza per vivere modestamente di rendita. Da allora si era ritirato a Le Havre, aveva comperato una barca ed era diventato marinaio dilettante. I suoi due figli Pierre e Jean erano rimasti a Parigi per continuare gli studi e di tanto in tanto venivano in vacanza a condividere gli svaghi del padre.

All’uscita di collegio, Pierre, di cinque anni maggiore del fratello, si era sentito attratto da diverse professioni; ne aveva provate una dopo l’altra una mezza dozzina, ma presto schifato da tutte, si era lanciato verso nuove speranze. Da ultimo l’aveva tentato la medicina; si era messo al lavoro con tanto impegno da riuscire a conquistare la laurea di dottore dopo studi molto brevi e riduzioni di tempo concessegli dal ministro. Era esaltato, intelligente, mutevole, tenace, pieno di utopie e di idee filosofiche. Jean, biondo quanto il fratello era bruno, calmo quanto l’altro era impulsivo e mite quanto quello era astioso, aveva seguito regolarmente i suoi corsi di giurisprudenza e si era laureato contemporaneamente a Pierre.

Ora entrambi si concedevano un po’ di riposo in famiglia, ma progettavano di stabilirsi definitivamente a Le Havre se avessero trovato una sistemazione soddisfacente.

Ma una vaga gelosia, una di quelle gelosie latenti che crescono, quasi invisibili, tra fratelli o tra sorelle fino alla maturità e divampano, poi, in occasione di un matrimonio o di una fortuna che tocchi a uno di loro, li teneva all’erta in una fraterna e innocua inimicizia. Si volevano bene, certo, ma si spiavano. Pierre, che alla nascita del fratellino aveva cinque anni, aveva guardato con ostilità da bestiola viziata quell’altra piccola bestia, amata e coccolata, apparsa all’improvviso tra le braccia del padre e della madre.

Fin dall’infanzia Jean era stato un modello di bontà per il carattere dolce e uniforme, e a poco a poco Pierre aveva cominciato ad esasperarsi a sentir lodare continuamente la dolcezza, la bonarietà e la bontà di quel fratello grande e grosso che a lui pareva solo indolente, balordo e ingenuo. I genitori, gente pacifica che sognava per i figli posizioni rispettabili e mediocri, gli rimproveravano le sue indecisioni, i suoi entusiasmi, i tentativi falliti, gli slanci impotenti verso idee generose e professioni di prestigio. Divenuto uomo non gli dicevano più: «Impara da Jean...» ma ogni volta che sentiva ripetere: «Jean ha fatto questo... Jean ha fatto quest’altro...» capiva benissimo il significato e l’allusione che quelle parole nascondevano.

La madre, donna d’ordine, economa, borghese, un po’ sentimentale, dotata di una tenera anima di cassiera, smorzava di continuo le piccole rivalità che nascevano ogni giorno dai fatti più banali della vita in comune tra i suoi due figli. In quel momento però c’era qualcosa che turbava la sua tranquillità, ed ella temeva qualche complicazione. Durante l’inverno infatti, mentre i figli terminavano i loro studi, aveva conosciuto una vicina, la signora Rosémilly, vedova di un capitano di lungo corso, morto in mare due anni prima.

La giovane vedova era una donna consapevole, che conosceva l’esistenza d’istinto come un animale libero, quasi, a soli ventitré anni, avesse visto subito, compreso e soppesato tutti gli avvenimenti possibili che giudicava in modo sano, realistico e benevolo. Aveva preso l’abitudine di andare la sera a far quattro chiacchiere e qualche punto di ricamo in casa di quei vicini gentili che le offrivano una tazza di tè. Papà Roland, con la sua mania di sembrare a tutti i costi uomo di mare, interrogava la nuova amica sul defunto capitano ed ella parlava di lui, dei suoi viaggi, dei suoi racconti, senza alcun imbarazzo, da donna ragionevole e rassegnata, che ami la vita e rispetti la morte.

Al loro ritorno, i due figli, trovata in casa la graziosa vedova, avevano cominciato a farle la corte, non tanto per il desiderio di piacerle, quanto per la voglia di superarsi a vicenda.

La madre, prudente e pratica, sperava molto che uno dei due trionfasse, perché la vedova era ricca; ma avrebbe anche voluto che l’altro non ne soffrisse.

La signora Rosémilly era bionda, con occhi azzurri, una corona di ricciolini che il più lieve soffio d’aria scompigliava e una certa arietta spavalda, ardita, battagliera che non era per niente in armonia con la saggezza del suo carattere.

Già sembrava preferire Jean, attratta verso di lui da un’affinità di temperamento, ma, del resto, tale preferenza si manifestava solo in una diversità quasi insensibile del tono di voce e degli sguardi e nel fatto che, qualche volta, chiedeva consiglio al giovane. Sembrava indovinare che l’opinione di Jean avrebbe rafforzato la propria, mentre quella di Pierre doveva essere fatalmente diversa.

Quando parlava delle idee del dottore in politica, in arte, in filosofia, in morale, le definiva, talvolta, «le sue manie». Allora lui la fissava con uno sguardo freddo, come un magistrato che stia facendo il processo alle donne, a tutte le donne, povere creature!

Prima del ritorno dei figli, papà Roland non l’aveva mai invitata alle sue partite di pesca, dove non conduceva neppure la moglie, perché gli piaceva imbarcarsi prima dell’alba, con Beausire, un capitano di lungo corso a riposo, incontrato al porto nelle ore di marea e diventato suo intimo amico, e il vecchio marinaio Papagris, soprannominato Jean Bart, che aveva l’incarico di sorvegliare la barca.

Ma, una sera della settimana precedente, la signora Rosémilly, che era a pranzo in casa dei Roland, aveva detto: «Dev’essere molto divertente la pesca!» e, allora, l’ex gioielliere, lusingato nella sua passione e preso dal desiderio di trasmetterla ad altri, di fare proseliti, come i preti, aveva esclamato:

«Vuole venire?»

«Ma sì!»

«Martedì prossimo?»

«Sì, martedì prossimo.»

«È il tipo da partire alle cinque?»

Lei lanciò un grido di stupore.

«Ah, questo poi no!»

Egli fu un po’ deluso, raffreddato, e, all’improvviso, dubitò di quella vocazione.

Tuttavia, chiese:

«A che ora si sentirebbe di partire?»

«Ma... alle nove!»

«Non prima?»

«No, prima no; è già troppo presto!»

Roland esitava. Certo, non avrebbero preso niente, perché, quando il sole è alto, i pesci non abboccano più. Ma i due fratelli s’eran subito dati da fare per combinar la partita, a organizzare e stabilire tutto seduta stante.

Così, il martedì seguente, la Perle era andata ad ancorarsi sotto gli scogli bianchi del Capo della Hève. Avevano pescato fino a mezzogiorno, poi dormito un po’ poi pescato di nuovo senza prender nulla. E papà Roland, comprendendo un po’ tardi che la signora Rosémilly amava ed apprezzava, in realtà, solo la gita in barca e, vedendo che le sue lenze non vibravano più, aveva lanciato, in un moto irragionevole d’impazienza, quell’energico: «Accidenti!» che si rivolgeva tanto alla vedova quanto ai pesci inafferrabili.

Ed ora guardava i suoi pesci, con una vibrante gioia d’avaro. Poi alzò gli occhi verso il cielo e vide che il sole declinava.

«Oh, ragazzi!» disse. «Se tornassimo?»

I due giovani ritirarono le lenze, le arrotolarono, attaccarono ai tappi di sughero gli ami e attesero.

Roland s’era alzato per scrutare l’orizzonte, come un capitano.

«Non c’è più vento,» disse. «Bisognerà remare, ragazzi.»

E, improvvisamente, con il braccio teso verso il nord, aggiunse:

«Guardate! Il piroscafo di Southampton.»

Dal mare calmo, teso come una stoffa turchina, immensa, lucente, dai riflessi d’oro e di fuoco, sorgeva laggiù, nella direzione indicata, una nube nerastra nel cielo rosa. E, sotto di essa, si scorgeva la nave, piccolissima, a quella distanza.

Da sud, altri numerosi pennacchi di fumo avanzavano verso il molo di Le Havre di cui si distingueva appena la linea bianca e sulla punta il faro diritto come un corno. Roland chiese:

«Non deve arrivare oggi la Normandie

«Sì, papà,» rispose Jean.

«Dammi il cannocchiale; credo sia quella laggiù.»

Il padre allungò il tubo d’ottone e lo avvicinò all’occhio, lo mise a fuoco e ad un tratto felice esclamò:

«Sì, sì è proprio lei, riconosco i due comignoli. Vuole guardare, signora Rosémilly?»

Lei prese il cannocchiale che rivolse verso la nave, senza però certamente riuscire a metterlo nella giusta posizione perché non distingueva niente, nient’altro che azzurro, un cerchio colorato, un arcobaleno rotondo, e delle cose strane, specie di eclissi che le facevano girare la testa. Mentre restituiva il cannocchiale disse:

«Del resto non son mai stata capace di servirmi di questo arnese, e mio marito che passava ore ed ore alla finestra a guardar le navi si arrabbiava sempre.»

Papà Roland irritato disse:

«Deve dipendere da un difetto della sua vista, perché la lente è ottima.»

Poi lo offri alla moglie:

«Vuoi vedere?»

«No, grazie. So già che non riuscirei.»

La signora Roland pareva godere più di tutti della gita e del tramonto. Era una donna di quarantotto anni, ma non li dimostrava. Aveva i capelli castani appena brizzolati e un aspetto calmo e ragionevole, un’aria felice e dolce, che faceva piacere a vedersi. Secondo un’espressione di Pierre, conosceva il valore del denaro; ma ciò non le impediva di gustare il fascino del sogno. Le piacevano i libri, romanzi e poesie, non per il loro pregio artistico, ma per la malinconica e tenera fantasia che suscitavano in lei. Un verso, spesso banale, spesso cattivo, faceva vibrare la «piccola corda», come lei diceva, le dava la sensazione di un desiderio misterioso quasi realizzato. E si compiaceva di queste leggere emozioni, che turbavano un poco la sua anima, ben tenuta, come un libro di contabilità.

Da quando era arrivata a Le Havre, ingrassava in maniera abbastanza visibile e il suo corpo, prima molto snello e sottile, si appesantiva.

Quella gita in mare le aveva fatto molto piacere. Il marito, senza essere cattivo, la trattava male, con villania, come sono villani, senza malanimo e senza astio, i padroni di bottega, per i quali comandare equivale a imprecare. Di fronte agli estranei cercava di trattenersi, ma in famiglia si lasciava andare e si dava arie terribili, quantunque avesse paura di tutti. Lei, per orrore del chiasso, delle scenate, delle spiegazioni inutili, cedeva sempre e non domandava mai nulla; perciò, da molto tempo, non osava pregare Roland di condurla in barca. Aveva, dunque, colto con gioia l’occasione ed assaporava quel piacere raro e nuovo. Dalla partenza si abbandonava interamente, anima e corpo, a quel dolce scivolare sull’acqua. Non pensava, non vagava né tra i ricordi né tra le speranze; le pareva che il suo cuore navigasse, come il suo corpo, su qualche cosa di morbido, di fluido, di delizioso che la cullasse in un dolce torpore.

Quando il padre ordinò di prepararsi al ritorno: «Su, ai remi!» ella sorrise nel vedere i figli, i suoi due ragazzoni, togliersi le giacche e rimboccare sulle braccia nude le maniche della camicia.

Pierre, il più vicino alle due donne, prese il remo di destra, Jean quello di sinistra ed entrambi attesero che il comandante gridasse: «Avanti insieme!» perché lui voleva che le manovre fossero eseguite secondo la regola.

Insieme, con un uguale sforzo, immersero i remi, poi si piegarono indietro, tirando con tutte le loro forze. E cominciò la gara per dimostrare la loro bravura. Erano venuti a vela, lentamente; ma la brezza era caduta ed ora l’idea di misurarsi l’un l’altro risvegliava all’improvviso il loro orgoglio maschile.

Quando andavano a pescare soli, insieme col padre, remavano così, senza che alcuno guidasse, perché Roland preparava le lenze, sorvegliando la rotta dell’imbarcazione, che dirigeva con un gesto o con qualche parola: «Jean, rallenta!» - «Forza, Pierre!» Oppure diceva: «Avanti l’uno; avanti il due, un po’ d’olio di gomiti!» Così quello che si era perso nelle nuvole tirava più forte, quello che sudava sui remi si fermava un momento e la barca si raddrizzava.

Quel giorno, invece, essi davan prova della loro forza. Le braccia di Pierre erano piene di peli, un po’ magre, ma muscolose; quelle di Jean, grasse e bianche, con muscoli in rilievo sotto la pelle.

Dapprima ebbe la meglio Pierre. A denti stretti, la fronte corrugata, le gambe tese, le mani contratte sul remo, lo piegava in tutta la sua lunghezza e ad ogni sforzo la Perle se ne andava verso la costa.

Papà Roland, seduto a prua per lasciare tutto il sedile alle signore, si sgolava a comandare: «Adagio, l’uno; forza, il due.» Ma il numero uno raddoppiava la sua furia e il due non riusciva a rispondere a quel remare disordinato.

Alla fine, il comandante ordinò: «Stop!» I due remi si alzarono insieme e Jean, al comando del padre, remò da solo per qualche tempo. Ma, da quel momento. il vantaggio rimase suo. Era concitato, si riscaldava, mentre il fratello, senza fiato, sfinito da quello scoppio d’energia, s’indeboliva e ansimava.

Quattro volte di seguito, papà Roland fece fermare per dar modo al maggiore di riprender fiato e di raddrizzare la barca che andava alla deriva. Allora Pierre, con la fronte madida di sudore, pallido, umiliato e rabbioso, balbettava:

«Non so che cosa mi prenda: ho una fitta al cuore. Ero partito benissimo e adesso ho le braccia rotte.»

Jean chiedeva:

«Vuoi che remi io, da solo, con tutti e due i remi?»

«No, grazie: passerà.»

La madre, annoiata, diceva:

«Ma, Pierre, che gusto c’è a ridursi così? Non sei più un bambino.»

Lui alzava le spalle e riprendeva a remare.

Pareva che la signora Rosémilly non vedesse, non capisse, non ascoltasse nulla. La sua testolina bionda, ad ogni scatto della barca, faceva, all’indietro, un movimento brusco e grazioso, che le sollevava sulle tempie i capelli fini.

Ma papà Roland gridò: «Guardate: ecco il Prince Albert che sta venendo verso di noi.» Tutti si girarono a guardare. Lungo, basso, con le due ciminiere inclinate all’indietro e i due tamburi gialli, rotondi come guance, il piroscafo di Southampton arrivava a tutto vapore, carico di passeggeri e di ombrellini aperti. Le sue ruote rapide e rumorose, battendo l’acqua che ricadeva schiumeggiando, gli davano una certa aria di premura, un’aria di corriere che ha fretta. La prua dritta tagliava il mare, sollevando due sottili onde trasparenti, che scivolavano lungo i fianchi.

Quando giunse accanto alla Perle, papà Roland si tolse il cappello, le donne sventolarono i fazzoletti: cinque o sei ombrellini risposero a quei saluti, agitandosi vivacemente a bordo della nave, che si allontanò, lasciando dietro, sulla superficie lucente e calma del mare, lente ondulazioni.

E si vedevano altre navi, anch’esse impennacchiate di fumo, che, da tutti i punti dell’orizzonte, accorrevano verso il molo breve e bianco che le inghiottiva come una bocca, una dopo l’altra. E i pescherecci e i grandi velieri dalle alberature leggere, che scivolavano sullo sfondo del cielo, tirati da quasi invisibili rimorchiatori, giungevan tutti, presto o lentamente, verso quell’orco affamato, che di tanto in tanto pareva sazio e rigettava al largo un’altra flotta di vapori, di brick, di golette, di «tre alberi» carichi di rami aggrovigliati. Gli steamers correvano veloci a destra e a sinistra, sul ventre piatto dell’oceano, mentre i bastimenti a vela, abbandonati dai «battelli-mosca», rimanevano immobili, rivestendosi, dalla grande gabbia al piccolo parrocchetto, di tela scura, che pareva rossa nel sole al tramonto.

La signora Roland, con gli occhi socchiusi, mormorò:

«Dio, com’è bello questo mare!»

La signora Rosémilly rispose con un sospiro prolungato che non aveva però niente di triste.

«Sì; ma qualche volta fa molto male.»

Roland esclamò:

«Guardate, ecco la Normandie, che sta entrando in porto. È grande, eh?»

Poi si mise a descrivere la costa di fronte, laggiù, dall’altro lato della foce della Senna. Venti chilometri, la foce, egli diceva. Indicò Villerville, Trouville, Houlgate, il fiume di Caen, Luc, Arromanches e le rocce del Calvados, che rendono pericolosa la navigazione fino a Cherbourg. Poi trattò la questione dei banchi di sabbia della Senna, che si spostano a ogni marea, tanto che perfino i piloti di Quilleboeuf, se non fanno ogni giorno il percorso del canale si trovano in difficoltà. Fece rilevare che Le Havre separa la bassa Normandia dall’alta. Nella bassa Normandia la costa piatta digrada in pascoli, in prati e campi fino al mare. La costa dell’alta Normandia, invece, è ripida: una grande scogliera, frastagliata, dentellata, magnifica, che forma, fino a Dunkerque; un’immensa muraglia bianca, dove in ogni insenatura si nasconde un villaggio o un porto: Etretat, Fécamlp, Saint-Valery, Le Tréport, Dieppe, ecc.

Le due donne non lo ascoltavano, pervase dal benessere, intenerite dalla vista di quell’oceano disseminato di navi che correvano come bestie intorno alla loro tana. Tacevano un po’ sopraffatte da quel vasto orizzonte di aria e d’acqua, rese mute da quel tramonto rasserenante e magnifico. Roland, solo, parlava senza interruzione. Era una di quelle persone che non si turbano per niente. Le donne, più nervose, sentono talvolta, senza comprendere il perché, che il suono di una voce inutile è irritante come una volgarità.

Pierre e Jean, calmatisi, remavano lentamente e la Perle andava verso il porto, piccolissima accanto alle grandi navi.

Papagris li aspettava sulla banchina e quando la barca accostò tese la mano alle signore per aiutarle a sbarcare.

Entrarono in città. Con loro rientrava una folla numerosa, tranquilla, la folla che va sul molo ogni giorno, all’ora dell’alta marea.

Le signore Roland e Rosémilly andavano avanti, seguite dai tre uomini. Nel risalire la rue de Paris, si fermavano ogni tanto davanti a un negozio di mode o a una gioielleria per ammirare un cappellino o un gioiello; poi riprendevano a camminare, dopo essersi scambiate le loro impressioni.

Davanti alla Place de la Bourse, Roland contemplò, come ogni giorno, il bacino del Commercio, pieno di navi, con accanto altri bacini, dove i grossi scafi si toccavano fianco contro fianco, su quattro o cinque file. Tutti gli innumerevoli alberi, su una distesa di diversi chilometri di banchina, tutti gli alberi con le «verghe», «le frecce», i cordami, davano a quello spiazzo d’acqua in mezzo alla città l’aspetto di un grande bosco morto. Al di sopra di quella foresta senza foglie volteggiavano i gabbiani, spiando i detriti gettati in acqua, per calar giù su di essi come pietre. Un mozzo, che attaccava una carrucola in cima a un contrapappafico, pareva si fosse arrampicato lassù in cerca di nidi.

«Vuole rimanere a cena coi noi, senza complimenti, per finire insieme la giornata?» chiese la signora Roland alla signora Rosémilly.

«Ma sì, con piacere: anch’io non faccio complimenti. Sarebbe triste, per me, tornarmene sola a casa, stasera.»

Pierre, che aveva udito e che cominciava a sentirsi urtato dall’indifferenza della giovane signora, mormorò: «Bene: ecco che la vedova pianta radici, ora!» Da alcuni giorni la chiamava «la vedova», e questa parola, per quanto non significasse niente, dava sui nervi a Jean, semplicemente per il tono in cui era detta, che gli sembrava cattivo e insultante.

E i tre uomini non dissero più una parola fino alla soglia della loro casa. Era un fabbricato stretto, composto di un pianterreno e di due piccoli piani, in via Belle-Normande. La domestica, Josephine, una ragazzetta di campagna dall’aria stordita e ottusa al massimo grado, a servizio per pochi soldi, venne ad aprire, richiuse la porta, salì dietro i padroni fino al salotto che era al primo piano, poi disse:

«È venuto uno, tre volte.»

Papà Roland, che non le parlava mai senza urlare e bestemmiare, gridò:

«Chi è venuto, porco cane?»

«Un signore del notaio,» rispose la domestica, imperturbabile alle urla del padrone.

«Quale notaio?»

«Il signor Canu, to’!»

«E che cosa ha detto quel signore?»

«Che il signor Canu verrà lui, stasera.»

Lecanu era il notaio e un po’ l’amico di papà. Roland, di cui curava gli interessi. Bisognava che fosse una cosa urgente e importante perché egli avesse annunciato la sua visita per quella sera. I quattro Roland si guardarono, turbati da quella notizia, come accade a tutte le persone di modesta condizione cui ogni intervento di notaio suscita una turba di pensieri: con tratti, eredità, processi, cose desiderabili o temute. Dopo alcuni istanti di silenzio, il padre disse:

«Che cosa mai vorrà?»

La signora Rosémilly si mise a ridere:

«È un’eredità, andiamo! Ne sono sicura; porto fortuna, io!»

Ma nessuno di loro sperava nella morte di qualcuno che potesse lasciar loro qualche cosa.

La signora Roland, dotata di un’ottima memoria per le parentele, si diede subito alla ricerca di tutti i legami da parte sua e del marito, a risalire le filiazioni, a seguire le ramificazioni delle cuginanze.

Senz’essersi tolta neppure il cappello, chiedeva:

«Di’ un po’, papà,» chiamava il marito «papà» in casa e talvolta «signor Roland» in presenza di estranei, «ricordi chi ha sposato Joseph Lebru, in seconde nozze?»

«Sì, una piccola Duménil, la figlia di un cartolaio.»

«Hanno avuto figli?»

«Credo bene, quattro o cinque almeno.»

«No; allora niente da fare, da quel lato.»

Già si eccitava in quella ricerca, si aggrappava alla speranza d’un po’ di agiatezza piovuta dal cielo. Ma Pierre, che amava molto sua madre, e conosceva la sua anima sognatrice, temendo per lei una delusione, un piccolo dolore, una lieve tristezza, se la notizia, invece di esser buona fosse stata cattiva, cercò di frenarla:

«Non entusiasmarti, mamma: non ci son più zii d’America! Secondo me si tratta di un matrimonio per Jean.»

Tutti furono sorpresi da quell’idea e Jean rimase un po’ urtato che il fratello avesse parlato di ciò in presenza della signora Rosémilly.

«Perché per me, e non per te? L’ipotesi è contestabilissima. Tu sei il maggiore, si dovrebbe pensare prima a te, eventualmente. E poi, io non voglio sposarmi.»

Pierre sogghignò.

«Allora sei innamorato?»

L’altro, seccato, rispose:

«È forse necessario ch’io sia innamorato per dire che non voglio ancora sposarmi?»

«Ah, bene! Quell’ancora cambia tutto. Tu aspetti.»

«Pensala come vuoi.»

Ma papà Roland, che aveva ascoltato e riflettuto, trovò all’improvviso la soluzione più verosimile.

«Perdinci! Siamo proprio stupidi a star qui a romperci tanto la testa. Il notaio Lecanu è nostro amico, sa che Pierre cerca un gabinetto medico e Jean uno studio d’avvocato: avrà trovato da mettere a posto uno di voi due.»

La cosa sembrò tanto semplice e probabile che furono tutti d’accordo.

«È pronto,» annunciò la domestica.

Prima di mettersi a tavola ognuno di loro si ritirò nella propria camera per lavarsi le mani.

Dieci minuti dopo, cenavano nella piccola sala da pranzo a pianterreno.

Dapprima nessuno parlò; ma, dopo un po’, Roland espresse ancora la propria meraviglia per la visita del notaio.

«Insomma, perché non ha scritto, perché ha mandato tre volte l’uomo dello studio, perché viene lui in persona?»

Per Pierre la cosa era naturale:

«Vorrà, senza dubbio, una risposta immediata e, forse, dovrà comunicarci clausole confidenziali che preferisce non mettere in iscritto.»

Ma erano preoccupati e un po’ seccati tutti e quattro d’aver invitato quell’estranea, che avrebbe intralciato la loro discussione e le risoluzioni da prendere.

Erano appena passati in salotto, quando fu annunciato il notaio.

Roland gli andò incontro:

«Buon giorno, caro maître

Dava al signor Lecanu il titolo di maître, che precede il nome di notaio.

La signora Rosémilly si alzò.

«Io vado; sono molto stanca.»

Ci fu qualche debole tentativo per trattenerla, ma lei non acconsentì e se ne andò senza che nessuno dei tre uomini l’accompagnasse, come facevano di solito.

La signora Roland si rivolse, premurosa, al notaio:

«Una tazza di caffè, signore?»

«No, grazie; mi sono alzato adesso da tavola.»

«Una tazza di tè, allora?»

«Più tardi, magari. Prima dobbiamo parlar d’affari.»

Nel profondò silenzio che seguì si udiva soltanto il moto ritmico dell’orologio a pendolo, e, al piano di sopra, il rumore delle stoviglie lavate dalla domestica, stupida al punto da non ascoltare neppure agli usci.

Il notaio riprese:

«Avete conosciuto a Parigi un certo signor Maréchal, Leon Maréchal?»

«Altro che!» esclamarono insieme il signore e la signora Roland.

«Era vostro amico?»

Roland dichiarò:

«Il miglior amico, signore; un parigino arrabbiato: non lascia mai il boulevard. È capo ufficio alle Finanze. Non l’ho più rivisto dopo la mia partenza dalla capitale: poi abbiamo smesso di scriverci... Sapete com’è, quando si vive lontani...»

Il notaio riprese con gravità:

«Il signor Maréchal è morto.»

Marito e moglie ebbero, contemporaneamente, quel piccolo trasalimento di sorpresa triste, finto o vero, ma sempre pronto, con il quale si accolgono tali notizie.

Il signor Lecanu continuò:

«Il mio collega di Parigi m’ha comunicato la disposizione principale del suo testamento, con cui nomina suo erede universale vostro figlio, il signor Jean Roland.»

Lo stupore fu così grande che nessuno riuscì a dire una parola. La signora Roland, per la prima, dominando la commozione, balbettò:

«Dio mio, quel povero Leon... il nostro povero amico... Mio Dio... mio Dio... morto!»

I suoi occhi si riempirono di lacrime, quelle silenziose lacrime di donna, gocce di dolore sgorgate dal cuore, che scorrono lungo le guance e sembrano tanto dolorose, proprio perché così limpide.

Ma Roland pensava meno alla tristezza di quella perdita che alla speranza annunciata. Tuttavia, non osava far subito domande sulle clausole del testamento e sulla cifra del patrimonio. Per arrivare dove voleva, chiese:

«Di che cosa è morto il povero Maréchal?»

Il signor Lecanu non ne sapeva niente.

«So soltanto,» diceva, «che è morto senza eredi legittimi, e lascia tutta la sua fortuna, circa ventimila franchi di rendita in titoli al tre per cento, al vostro secondogenito, che ha visto nascere, crescere e che ritiene degno di questa eredità. Nel caso che il signor Jean rifiuti, l’eredità andrebbe all’infanzia abbandonata.»

Papà Roland non riusciva già più a nascondere la sua gioia:

«Perdiana!» esclamò. «Ecco una bella idea. Anch’io, se non avessi avuto discendenti, non avrei certo dimenticato quel caro amico!»

Il notaio sorrideva.

«Sono stato molto contento,» disse, «di annunciarvi personalmente la cosa. Fa sempre piacere portare una buona notizia.»

Non aveva pensato affatto che quella buona notizia era l’annuncio della morte di un amico, del migliore amico di papà Roland, che, dal canto suo, dimenticava improvvisamente quell’intimità poco prima affermata con tanta convinzione.

Sul volto della signora Roland e dei suoi figli si leggeva la tristezza. Lei continuava a piangere un poco, asciugandosi gli occhi con il fazzoletto, che poi appoggiava alla bocca per reprimere profondi sospiri.

Il dottore mormorò:

«Era un brav’uomo, molto affettuoso. Spesso invitava a pranzo mio fratello e me.»

Jean, con gli occhi spalancati e luccicanti, stringeva, con un gesto abituale, la sua bella barba bionda nella mano destra e ve la faceva scivolare, come per allungarla e assottigliarla.

Mosse due volte le labbra per dire anche lui qualche frase di circostanza; ma, dopo aver cercato a lungo, non trovò altro che questo:

«Mi voleva bene, infatti. Mi baciava sempre, quando andavo a trovarlo.»

Ma il pensiero del padre galoppava, galoppava intorno a quell’eredità appena annunciata, ma che già sentiva in mano, a quel denaro nascosto dietro la porta e che sarebbe entrato in casa fra poco, domani: bastava firmare l’accettazione.

«Non vi sono difficoltà possibili?... Processi?... Contestazioni?» domandò.

Il signor Lecanu sembrava tranquillo:

«No; il mio collega di Parigi mi assicura che la situazione è chiarissima. Occorre solo l’accettazione del signor Jean.»

«Benissimo, allora... e il patrimonio è chiaro?»

«Chiarissimo.»

«Sono state eseguite tutte le formalità?»

«Tutte.»

All’improvviso il vecchio gioielliere provò un senso di vergogna, una vergogna vaga, istintiva e fugace, per la fretta che aveva avuto nel chiedere informazioni, e continuò:

«Capirà che, se le domando subito tutte queste cose, è per evitare a mio figlio noie che lui non potrebbe prevedere. Ci possono essere debiti, una situazione complicata, che so io? E ci si trova inguaiati in un ginepraio inestricabile. Insomma, non sono io che eredito; ma penso prima di tutto al piccolo.»

In famiglia chiamavano sempre Jean il piccolo, benché fosse molto più alto di Pierre.

La signora Roland, improvvisamente, parve svegliarsi da un sogno e ricordare una cosa lontana, quasi dimenticata, udita un tempo e della quale, tra l’altro, non fosse neanche sicura.

«Non diceva,» balbettò, «che il nostro povero Maréchal ha lasciato il suo patrimonio al mio piccolo Jean?»

«Sì, signora.»

«E, allora,» aggiunse con semplicità, «ciò mi fa molto piacere, perché dimostra che ci amava.»

Roland s’era alzato.

«Vuole, caro maître, che mio figlio firmi subito l’accettazione?»

«No... no... signor Roland. Domani, domani nel mio studio, alle due, se crede.»

«Ma sì, ma sì, benissimo!»

La signora Roland s’era alzata anche lei e sorrideva dietro le lacrime, fece due passi verso il notaio, appoggiò una mano sullo schienale della poltrona e, con sguardo riconoscente e commosso, chiese:

«E questa tazza di tè, signor Lecanu?»

«Ora sì, signora, con piacere.»

La domestica, chiamata, portò per prima cosa dei biscotti secchi in alte scatole di latta, quegli insipidi e duri biscotti inglesi che sembran fatti apposta per becchi di pappagalli e chiusi in cassette metalliche per viaggi intorno al mondo. Andò, poi, a prendere certi tovagliolini grigi, piegati in piccoli quadrati, di quei tovaglioli da tè, che, nelle famiglie modeste, non si lavano mai. Tornò per la terza volta con la zuccheriera e le tazze e poi uscì di nuovo per far bollire l’acqua.

Attesero.

Nessuno poteva parlare. Avevano troppo da pensare e nulla da dire. La signora Roland, soltanto, tentò qualche frase banale. Descrisse la partita di pesca, fece l’elogio della Perle e della signora Rosémilly.

«Graziosissima, graziosissima», continuava a ripetere il notaio.

Roland, la schiena appoggiata al marmo del caminetto, come d’inverno, quando il fuoco è acceso, le mani in tasca e le labbra che si agitavano come per fischiettare, non riusciva a star fermo, smanioso di proclamare tutta la sua gioia.

I due fratelli, seduti su due poltrone uguali, le gambe accavallate allo stesso modo, a destra e a sinistra del tavolino centrale, fissavano il vuoto, simili nell’atteggiamento ma con espressioni diverse.

Finalmente arrivò il tè. Il notaio prese, inzuccherò e bevve la sua tazza, dopo avervi sminuzzato dentro un biscottino troppo duro per essere sgranocchiato; poi si alzò, strinse la mano agli ospiti e uscì.

«Siamo d’accordo;» ripeteva Roland, «domani, nel suo studio, alle due.»

«D’accordo; domani alle due.»

Jean non aveva detto una parola.

Uscito il notaio vi fu ancora un po’ di silenzio; poi papà Roland batté la mano sulle spalle del figlio minore, esclamando:

«E allora, fortunato mortale, non mi abbracci?»

Jean sorrise ed abbracciò il padre.

«Non mi sembrava indispensabile,» disse.

Ma il brav’uomo non stava più nella pelle dalla gioia. Camminava, sonava il pianoforte sui mobili con le dita maldestre, piroettava sui tacchi e ripeteva:

«Che fortuna; che fortuna! Questa è proprio una bella fortuna!»

Pierre domandò:

«Lo conoscevate molto bene questo Maréchal?»

«Perbacco!» rispose il padre. «Passava tutte le serate in casa nostra... Ma ricorderai che veniva a prenderti in collegio, nei giorni d’uscita, e che spesso ti riaccompagnava dopo pranzo. Fu lui, la mattina che nacque Jean, a chiamare il medico! Aveva fatto colazione da noi. Quando tua madre si sentì male capimmo subito di che cosa si trattava ed egli uscì di corsa... Nella fretta, prese il mio cappello invece del suo. Ricordo questo particolare perché, dopo, ne abbiamo riso molto. È perfino probabile che se ne sia ricordato anche lui mentre stava per morire e, siccome non aveva altri eredi, abbia detto: ‹To’; ho contribuito alla nascita di quel piccino, gli lascerò il mio patrimonio.›»

La signora Roland, sprofondata in una poltrona, pareva assorta nei suoi ricordi. Mormorò, come se pensasse ad alta voce:

«Ah, era un caro amico, molto affezionato e fedele, un uomo raro, con i tempi che corrono.»

Jean s’era alzato:

«Vado a fare due passi,» disse.

Il padre si meravigliò, cercò di trattenerlo: dovevano parlare, far progetti, prendere decisioni. Ma il giovane si ostinò, con il pretesto di un appuntamento. D’altra parte, c’era tutto il tempo di mettersi d’accordo molto prima di entrare in possesso dell’eredità.

E se ne andò, perché desiderava star solo per riflettere. A sua volta, anche Pierre annunciò che usciva e seguì il fratello dopo alcuni minuti.

Papà Roland, rimasto solo a tu per tu con la moglie, la strinse tra le braccia, la baciò dieci volte sulle guance e, per rispondere a un rimprovero che, spesso, lei gli aveva rivolto, disse:

«Vedi, mia cara, che non mi sarebbe servito a niente restare di più a Parigi a sgobbare per i figli. Ho fatto bene a venir qui a rimettermi in salute, perché la fortuna ci casca dal cielo.»

Lei era diventata molto seria.

«Casca dal cielo per Jean,» disse, «ma per Pierre?»

«Pierre? Ma Pierre è dottore e guadagnerà... E poi suo fratello farà, certo, qualche cosa per lui.»

«No. Lui non accetterà. E poi l’eredità è di Jean, soltanto sua... Pierre si trova, così, molto svantaggiato.»

Il brav’uomo sembrava perplesso:

«Allora gli lasceremo noialtri qualche cosa di più, nel testamento.»

«No. Neppure questo è molto giusto.»

Egli gridò:

«Ah! Bene, allora, va’ al diavolo! E che cosa vuoi che ci faccia, io? Tiri fuori sempre un mucchio di idee spiacevoli. Devi proprio guastarmi tutte le mie gioie. Vado a letto, to’! Buona sera. Non importa; è sempre una fortuna, una bella fortuna!»

E uscì, raggiante, a dispetto di tutto, senza una parola di rimpianto per il generoso amico morto.

La signora Roland si rimise a pensare davanti alla lampada che si consumava.

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