Questo testo è completo. |
◄ | VI | VIII | ► |
Al ritorno, tutti gli uomini, tranne Jean, sonnecchiarono nel break. Beausire e Roland si abbattevano, ogni cinque minuti, su una spalla vicina, che li respingeva con una scossa. Allora si raddrizzavano, smettevano di russare, aprivano gli occhi, mormoravano: «Gran bel tempo...» e ricadevano quasi subito dall’altro lato.
Quando entrarono in Le Havre erano talmente intorpiditi che durarono molta fatica a riprendersi. Beausire, anzi, rifiutò di salire da Jean, dove li aspettava il tè. Dovettero farlo smontare davanti alla porta della sua casa.
Il giovane avvocato dormiva per la prima volta nel suo nuovo appartamento e, all’improvviso, lo aveva preso una gran gioia, un po’ puerile, di mostrare, propria quella sera, alla sua fidanzata, la casa che avrebbe occupato presto.
La domestica era andata via. La signora Roland aveva dichiarato che avrebbe fatto bollire l’acqua ed avrebbe servito lei stessa il tè, perché non le piaceva che i domestici stessero alzati, per paura del fuoco.
Nessuno, all’infuori di lei, del figlio e degli operai, era entrato nell’appartamento perché la sorpresa doveva esser completa, quando avrebbero visto com’era bello.
Nell’ingresso Jean pregò che attendessero. Voleva accendere le candele e le lampade, e lasciò al buio la signora Rosémilly, suo padre e suo fratello, poi gridò, spalancando la porta a due battenti: «Venite!»
La galleria a vetri, illuminata da un lampadario e da vetri colorati nascosti tra le palme, le piante grasse e i fiori, pareva, a prima vista, uno scenario di teatro. Vi fu un attimo di stupore. Roland, meravigliato da quel lusso, mormorò: «Porco d’un cane!», preso dalla voglia di battere le mani come davanti a un’apoteosi.
Poi entrarono nel primo salotto, piccolo, tappezzato di una stoffa color oro vecchio simile a quella delle sedie. Lo studio, un locale grande, semplicissimo, d’un rosso salmone pallido, aveva un’aria imponente.
Jean sedette sulla poltrona davanti alla sua scrivania carica di libri e, con voce grave, un po’ forzata:
«Sì, signora,» disse, «la legge non ammette dubbi in questo caso, e mi dà, con il consenso che le avevo annunciato, l’assoluta certezza che, in tre mesi, l’affare di cui abbiamo discusso avrà una soluzione.»
Guardava la signora Rosémilly che sorrise guardando la signora Roland; e questa, prendendole una mano, gliela strinse.
Jean, raggiante, fece uno sgambetto da collegiale ed esclamò:
«Come risuona bene la voce, eh? Sarebbe magnifica per una difesa, questa sala.»
E si mise a declamare:
«Se l’umanità soltanto, se quel senso di naturale benevolenza che proviamo per ogni dolore, dovesse essere il movente dell’assoluzione che vi chiediamo, noi faremmo appello alla vostra pietà, signori giurati, ai vostri cuori di padri e di uomini; ma abbiamo dalla nostra parte il diritto e solo una questione di diritto solleveremo davanti a voi...»
Pierre guardava quell’appartamento che avrebbe potuto esser suo, e s’irritava delle bambinate di suo fratello, giudicandolo troppo ingenuo e semplice.
La signora Roland aprì una porta a destra.
«Ecco la camera da letto,» disse.
Aveva messo, nell’arredarla, tutto il suo amore materno. La tappezzeria era in cretonne di Rouen, che imitava la vecchia tela normanna. Un disegno stile Luigi XV, una pastorella entro un medaglione chiuso dai becchi uniti di due colombi, conferiva alle pareti, alle tendine, al letto, alle poltrone un’aria galante e campagnola molto graziosa.
«Oh, è molto carino!» disse la signora Rosémilly, che era diventata un po’ seria nell’entrare in quella camera.
«Le piace?» chiese Jean.
«Moltissimo.»
«Sapesse come mi fa piacere!»
Si guardarono un attimo negli occhi con molta fiduciosa tenerezza.
Lei, si sentiva però un po’ imbarazzata, un po’ confusa in quella camera da letto, che sarebbe stata la sua camera nuziale. Aveva osservato, entrando, che il letto era larghissimo, un vero letto matrimoniale, scelto dalla signora Roland, che, indubbiamente, aveva previsto e desiderato il matrimonio del figlio. E quella previdenza materna le faceva piacere, pareva che le dicesse che era attesa nella famiglia.
Poi, quando furono rientrati nel salotto, Jean aprì bruscamente l’uscio di sinistra e si vide la sala da pranzo, rotonda, con tre finestre e adorna di lanterne giapponesi.
Madre e figlio avevano impiegato lì dentro tutta la fantasia di cui erano capaci. Quella stanza coi suoi mobili di bambù, le statuette e i vasi cinesi, le sete a lustrini dorati, le tendine trasparenti di perline di vetro che parevano gocce d’acqua, i ventagli inchiodati alle pareti per tendere le stoffe, con i suoi paraventi, le sciabole, le maschere, le gru fatte di penne vere, tutti i piccoli gingilli di porcellana, di legno, di carta, d’avorio, di madreperla e di bronzo, aveva l’aspetto pretenzioso e manierato che mani inabili e occhi ignoranti conferiscono alle cose che esigono al massimo grado tatto, gusto, ed educazione artistica. Tuttavia fu la più ammirata. Soltanto Pierre fece qualche riserva, con un’ironia un po’ amara che urtò suo fratello. Sulla tavola si ergevano piramidi di frutta e monumenti di pasticcini. Nessuno aveva fame. Più che mangiarla, piluccarono la frutta e sgranocchiarono i pasticcini. Poi dopo un’ora la signora Rosémilly chiese di ritirarsi.
Fu deciso che papà Roland l’avrebbe accompagnata fino a casa e sarebbe andato via subito con lei. Intanto la signora Roland, in assenza della domestica, avrebbe dato un’occhiata da madre all’appartamento affinché non mancasse niente al figlio.
«Devo tornare a prenderti?» chiese Roland.
Lei esitò, poi rispose: «No caro. Va’ pure a letto, mi accompagnerà Pierre.»
Appena furono usciti, spense le candele, ripose i pasticcini, lo zucchero e i liquori in un mobile e consegnò la chiave a Jean, poi passò nella camera, scostò le tendine del letto, guardò se la bottiglia era piena d’acqua fresca e la finestra ben chiusa.
Pierre e Jean erano rimasti nel salottino, l’uno ancora seccato per la critica fatta al suo gusto, l’altro sempre più stizzito di veder suo fratello in quell’appartamento.
Fumavano entrambi, seduti, senza parlare. A un tratto Pierre si alzò:
«Perdinci!» esclamò. «La vedova sembrava stravolta, questa sera. Si vede che le gite non le fanno bene.»
Jean si sentì invaso improvvisamente da uno di quei rapidi e furiosi accessi d’ira come accade alle persone bonarie quando vengon ferite.
Gli mancava il respiro, tanto era agitato. Balbettò:
«Ti proibisco, ormai, di dire ‹la vedova› quando parli della signora Rosémilly.»
Pierre si volse verso di lui, con aria sprezzante:
«Mi pare che tu mi dia degli ordini. Stai diventando matto, per caso?»
Jean s’era levato in piedi, di scatto.
«Non sto diventando matto; ma ne ho abbastanza dei tuoi modi verso di me.»
Pierre sogghignò:
«Verso di te? Fai, forse, parte della signora Rosémilly, tu?»
«Sappi che la signora Rosémilly sarà mia moglie.»
L’altro rise più forte.
«Ah, ah! Benissimo. Ora capisco perché non dovrei più chiamarla ‹la vedova› Ma è uno strano modo di annunciarmi il tuo matrimonio.»
«Ti proibisco di scherzare... hai capito?... Te lo proibisco!»
Jean gli si era avvicinato, pallido, con la voce tremante, esasperato da quell’ironia verso la donna che amava e che aveva scelto.
Ma, a un tratto, anche Pierre divenne furioso. Tutto ciò che aveva accumulato, collere impotenti, rancori soffocati, ribellioni domate da poco tempo e disperazione silenziosa, gli montò alla testa, lo stordì come una mazzata.
«Tu osi?... Tu osi?... E io ti ordino di tacere... Hai capito? Te lo ordino!»
Sorpreso da quella violenza, Jean tacque per qualche secondo, cercando, nel turbamento causato dall’ira, la cosa, la frase, la parola che potesse ferire profondamente il fratello.
Riprese cercando di dominarsi per meglio sferrare il colpo, di rallentare la parola per renderla più tagliente:
«So, da un pezzo, che sei geloso di me, dal giorno in cui tu hai cominciato a dire ‹la vedova› perché hai capito che ciò mi offendeva.»
Pierre lanciò una di quelle risate stridule e sprezzanti che gli erano abituali.
«Ah! Ah! Mio Dio! Invidioso di te?... Io?... Io?... Io?... E per che cosa?... Per che cosa, buon Dio? Del tuo aspetto o del tuo ingegno?»
Ma Jean sentì che aveva messo il dito nella piaga:
«Sì, tu sei geloso di me, e geloso fin da bambino... E sei diventato furibondo quando hai visto che quella donna preferiva me e, di te, non voleva saperne...»
Pierre balbettava, esasperato da quella supposizione.
«Io... io... invidioso di te? A causa di quella stupida, di quella tacchina, di quell’oca grassa?»
Jean, che vedeva i suoi colpi giungere a segno, riprese:
«E il giorno in cui hai tentato di remare più forte di me, sulla Perle? E tutto ciò che dici davanti a lei per farti valere? Ma tu crepi d’invidia! E, quando m’è capitata questa fortuna, tu sei diventato furioso e m’hai odiato e lo hai mostrato in tutti i modi, e hai fatto soffrire tutti... E non stai un’ora senza sputare la bile che ti soffoca.»
Pierre strinse i pugni per il furore, con un desiderio irresistibile di saltare addosso a suo fratello e di afferrarlo per la gola.
«Ah! Taci, una buona volta; non parlare di quella eredità!»
Jean gridò:
«Ma l’invidia ti trasuda da tutti i pori. Non dici una parola a papà, alla mamma o a me senza che venga fuori. Fingi di disprezzarmi perché sei invidioso! Cerchi di litigare con tutti perché sei invidioso. E adesso che io sono ricco, tu non sai più tenerti; sei diventato velenoso, torturi la mamma come se fosse colpa sua!»
Pierre aveva indietreggiato fino al caminetto, con la bocca semiaperta, gli occhi dilatati, in preda a uno di quei parossismi d’ira che fan commettere dei delitti.
Ripeté, con voce bassa, ma affannosa:
«Taci! Ma taci, dunque!»
«No. Da un pezzo volevo dirti tutto ciò che pensavo: tu mi hai dato l’occasione; peggio per te. Io amo una donna! Tu lo sai e la prendi in giro davanti a me; mi fai uscire dai gangheri; peggio per te! Ma io romperò quei tuoi denti di vipera! Ti costringerò a rispettarmi.»
«Rispettare te?»
«Sì, me!»
«Rispettare te, che... ci hai disonorati tutti con la tua avidità?»
«Cosa hai detto? Ripeti... ripeti!»
«Dico che non si accetta in eredità il patrimonio di un uomo, quando si passa per il figlio di un altro.»
Jean rimaneva immobile, senza capire, spaventato di fronte all’insinuazione che presentiva.
«Come? Tu dici?... Ripeti ancora.»
«Dico quello che tutti mormorano, che tutti dicono in giro, che tu sei figlio dell’uomo che t’ha lasciato il suo patrimonio. Ebbene! Un giovane onesto non accetta del denaro che disonora sua madre...»
«Pierre... Pierre... Pierre... Ma ci pensi? Tu... Sei tu... tu che pronunzi quest’infamia?»
«Sì... sì... sono io. Non vedi, dunque, che da un mese muoio di dolore, che passo le mie notti senza dormire e i miei giorni a nascondermi come una bestia, che non so più quello che dico, né quello che faccio, né quello che sarà di me, tanto soffro, tanto mi sento smarrito per la vergogna e per il dolore, perché prima ho intuito e adesso so?»
«Pierre... taci... La mamma è nella camera accanto! Pensa che può sentirci... che ci sente.»
Ma lui doveva liberare il suo cuore! E disse tutto; i suoi sospetti, i suoi ragionamenti, le sue lotte, la sua certezza e la storia del ritratto scomparso ancora una volta.
Parlava con frasi corte, spezzate, quasi senza legami, frasi da allucinato.
Pareva, ora, che avesse dimenticato Jean e sua madre nella stanza accanto. Parlava come se nessuno lo ascoltasse, perché doveva parlare, perché aveva troppo sofferto, troppo compressa e chiusa la ferita. Essa s’era ingrandita come un tumore e quel tumore scoppiava, infangando tutti. S’era messo a camminare come faceva quasi sempre e, con lo sguardo fisso davanti a sé, gesticolando in una frenesia di disperazione, con la gola spezzata dai singhiozzi e con ritorni d’odio contro se stesso, parlava come se avesse confessato la propria miseria e quella dei suoi, come se avesse lanciato la sua pena nell’aria invisibile e sorda, nella quale le sue parole si perdevano.
Jean, smarrito e quasi convinto d’improvviso dalla cieca energia del fratello, s’era addossato alla parete dietro la quale indovinava che la madre li avesse sentiti.
Lei non poteva uscire: doveva passare dal salotto. Non era tornata, dunque non aveva avuto il coraggio.
Improvvisamente Pierre, battendo un piede a terra, gridò:
«Sono stato un porco a dire tutto questo!»
E si slanciò, senza cappello, verso le scale. Il rumore del portone che si richiudeva con fracasso ridestò Jean dal profondo torpore in cui era piombato. Erano trascorsi alcuni secondi, più lunghi di ore, e la sua anima s’era come intorpidita in un inebetimento da idiota. Sentiva che bisognava pensare ed agire subito, ma aspettava perché non voleva neppure più capire, sapere, ricordare, per paura, per debolezza, per viltà. Era della razza dei temporeggiatori, che rimandano sempre al domani e, quando si doveva prendere subito una decisione, cercava ancora, per istinto, di guadagnare qualche momento.
Ma il silenzio profondo che lo circondava, ora, dopo le grida di Pierre, quel silenzio improvviso delle pareti, dei mobili, con quella viva luce delle sei candele e delle due lampade, a un tratto lo spaventò talmente che provò il desiderio di fuggire a sua volta.
Allora si riscosse e cercò di riflettere.
Non aveva mai incontrato in vita sua una difficoltà. Vi sono uomini che si lasciano andare come l’acqua che scorre. Aveva frequentato le scuole con diligenza, per non essere punito, e terminato i corsi di giurisprudenza con regolarità, perché la sua esistenza era tranquilla. Tutte le cose del mondo gli sembravano naturali, niente risvegliava per altro la sua attenzione. Amava l’ordine, la ragionevolezza, il riposo, per temperamento, perché la sua anima non era complicata, e rimaneva, di fronte a quella catastrofe, come un uomo che cada nell’acqua senza aver mai nuotato.
Forse suo fratello aveva mentito, per odio e per invidia?
Ma, come avrebbe potuto essere così miserabile da dire una cosa simile sul conto della loro madre se non fosse stato lui stesso travolto dallo smarrimento della disperazione? E poi Jean conservava nell’orecchio, nello sguardo, nei nervi, fin nel profondo del suo corpo certe parole, certe grida di dolore, intonazioni e gesti di Pierre, così angosciosi da non resistere, irrefutabili quanto la certezza stessa.
Era troppo annientato per fare un movimento o per avere una volontà. La sua angoscia diventava intollerabile ed egli intuiva che, dietro la porta c’era sua madre che aveva sentito tutto e che aspettava.
Che cosa stava facendo? Non un movimento, non un fremito, non un soffio, non un sospiro rivelava la presenza di qualcuno dietro l’uscio. Era andata via, forse? Ma per dove? Se era fuggita... era saltata dalla finestra in istrada, allora?
Ebbe un sussulto di spavento, così improvviso, così imperioso, che sfondò, più che aprire, la porta e si precipitò nella camera.
Sembrava vuota. La illuminava una sola candela, sul cassettone.
Jean si slanciò verso la finestra, ma i vetri e gli scuri erano chiusi. Si volse, frugando con lo sguardo ansioso gli angoli bui e vide che le tendine del letto erano chiuse. Vi corse e le aprì. La madre era distesa sul suo letto, il volto affondato nel cuscino che, con mani convulse, s’era tirato sul capo per non sentire.
Dapprima la credette soffocata. Poi, l’afferrò per le spalle, la girò senza che lei lasciasse il cuscino in cui nascondeva il viso e che mordeva per non gridare.
Ma il contatto di quel corpo irrigidito, di quelle braccia contratte gli trasmise la scossa di quella indicibile tortura. L’energia, la forza che aveva per trattenere, con le dita e con i denti, il cuscino di piume sulla sua bocca sugli occhi e sugli orecchi perché egli non la vedesse e non le parlasse, gli fece indovinare, dalla commozione che provò, fino a qual punto si possa soffrire. E il suo cuore, il suo semplice cuore fu straziato dalla pietà. Non era più un giudice, neppure un giudice misericordioso, era un uomo pieno di debolezza e un figlio pieno di affetto. Non ricordò nulla di ciò che suo fratello gli aveva detto, non ragionò, non discusse, toccò semplicemente con tutte e due le mani il corpo inerte di sua madre e, non riuscendo a strapparle il cuscino dal volto, gridò, baciandole il vestito:
«Mamma, mamma, povera mamma, guardami!»
Poteva sembrare morta, se tutte le sue membra non fossero state percorse da un fremito quasi insensibile, come da una vibrazione di corda tesa. Egli ripeteva:
«Mamma, mamma, ascoltami. Non è vero. Io so bene che non è vero.»
Lei ebbe uno spasimo, come se stesse per soffocare; poi, a un tratto, singhiozzò nel cuscino. Allora la tensione di tutti i suoi nervi si allentò, le dita, schiudendosi, lasciarono la tela. Ed egli le scoprì il volto.
Era pallidissima, tutta bianca, e dalle palpebre chiuse sgorgavano le lacrime. Jean, cingendole il collo con le braccia, le baciò gli occhi lentamente, con grandi baci sconsolati che si bagnavano delle lacrime di lei.
«Mamma, mia cara mamma,» egli diceva, «so bene che non è vero. Non piangere, lo so! Non è vero!»
Lei si sollevò, si mise a sedere, lo guardò e, con uno di quegli sforzi di coraggio che, in certi casi, occorrono per uccidersi, gli disse: «No, figlio mio, è vero.»
E rimasero muti, l’uno di fronte all’altra. Per alcuni istanti ancora lei parve soffocare, protendendo la gola, rovesciava la testa per respirare. Poi si vinse di nuovo e continuò:
«È vero, figlio mio. Perché mentire? È vero. Se mentissi, non mi crederesti.»
Aveva l’aspetto di una pazza. Preso dal terrore, egli cadde in ginocchio accanto al letto, mormorando:
«Taci, mamma, taci.»
Lei s’era alzata, con una decisione e una energia che facevano spavento.
«Ma non ho più nulla da dirti, figlio mio. Addio.»
E si avviò verso la porta.
Jean l’afferrò con tutt’e due le braccia, esclamando:
«Che cosa fai, mamma? Dove vai?»
«Non so... Non ho più nulla da fare, sono sola...»
Si dibatteva per fuggire. Egli, trattenendola, trovava soltanto una parola da ripeterle:
«Mamma... mamma... mamma.»
E lei diceva, tentando con ogni sforzo di liberarsi da quella stretta:
«Ma no, ma no, non sono più tua madre, ora; non sono più niente per te, per nessuno, più niente, più niente! Tu non hai più né padre, né madre, mio povero ragazzo... ciao... ciao...»
Egli capì d’un tratto che, se l’avesse lasciata andar via, non l’avrebbe più rivista e, sollevandola, la portò su una poltrona, la fece sedere a forza, poi, inginocchiatosi e incatenandola con le braccia, disse:
«Tu non uscirai di qui, mamma; io ti voglio bene e ti tengo. Ti tengo per sempre; tu sei mia.»
«No, no, povero ragazzo,» mormorò lei con voce affranta, «non è più possibile. Stasera tu piangi e domani mi manderai via. E non mi perdoneresti neppure.»
Egli rispose con uno slancio di così grande e sincero amore - «Oh! Io? Io? Come mi conosci poco!» - che lei lanciò un grido, gli prese la testa, affondò le mani nei capelli, lo attirò a sé con violenza e lo baciò perdutamente sul volto.
Poi rimase immobile, con la guancia contro quella del figlio, sentendo attraverso la barba il calore della sua pelle, e gli disse, sottovoce, nell’orecchio:
«No, mio piccolo Jean. Tu domani non mi perdoneresti. Lo credi e t’inganni. Mi hai perdonata stasera e questo perdono mi ha salvato la vita; ma bisogna che tu non mi riveda più.»
Egli ripeté, stringendola:
«Mamma, non dir così!»
«Sì, caro; devo andarmene. Non so dove, né come farò, né quello che dirò; ma è necessario. Non oserei più guardarti, né baciarti, capisci?»
Allora egli disse, sottovoce, nell’orecchio:
«Mammina mia, tu resterai perché io lo voglio, perché ho bisogno di te. E giurami di obbedirmi immediatamente.»
«No, no.»
«Oh, mamma! Devi, capisci? Devi!»
«No, è impossibile. Sarebbe lo stesso che condannarci tutti all’inferno. Io so che cosa è quel supplizio, da un mese. Tu adesso sei sconvolto, ma, quando sarà passato, mi guarderai come mi guarda Pierre, quando ricorderai quel che ho detto!... Oh, Jean caro, pensa... pensa ch’io sono tua madre!»
«Non voglio che tu mi lasci, mamma. Ho soltanto te.»
«Ma pensa, figlio mio, che non potremo più guardarci senza arrossire tutti e due, senza che io mi senta morire di vergogna e che i tuoi occhi facciano abbassare i miei.»
«Non è vero, mamma.»
«Sì, si, sì, è vero! Oh! Io ho capito, sai, tutte le lotte del tuo povero fratello, tutte, fin dal primo giorno. Ora, quando sento il suo passo in casa, il cuore mi balza nel petto fino a spezzarsi; quando odo la sua voce, sento che sto per svenire. Avevo ancora te! Ora non ti ho più. Oh, caro! Credi che potrei vivere tra voi due?»
«Sì, mamma. Io ti vorrò così bene che tu non ci penserai più.»
«Oh, oh! Come se fosse possibile!»
«Sì; è possibile.»
«Come vuoi ch’io non ci pensi più, fra tuo fratello e te? E voi? Non ci penserete forse più?»
«Io no, te lo giuro.»
«Ma tu ci penserai ad ogni ora del giorno.»
«No, te lo giuro. E poi ascolta: se tu te ne vai, io mi arruolo e mi faccio uccidere.»
Lei fu sconvolta da quella minaccia puerile e strinse Jean accarezzandolo con tenerezza. Egli soggiunse:
«Ti voglio bene più di quanto tu creda, guarda, assai di più. Su, sii ragionevole. Resta soltanto otto giorni. Vuoi promettermi otto giorni? Non puoi rifiutarmi questo!»
Lei appoggiò le mani sulle spalle di Jean e, tenendolo alla distanza delle sue braccia, disse:
«Figlio mio... cerchiamo di esser calmi e di non commuoverci. lascia prima ch’io ti parli. Se dovessi udire una sola volta dalle tue labbra ciò che odo da un mese da quelle di tuo fratello, se una sola volta dovessi vedere nei tuoi occhi ciò che leggo nei suoi, se dovessi indovinare, non fosse altro che per una parola o per uno sguardo, che ti sono odiosa come a lui... un’ora dopo, capisci? un’ora dopo... me ne andrei per sempre.»
«Mamma, ti giuro...»
«Lasciami dire... Da un mese ho sofferto tutto ciò che una creatura può soffrire. Dal momento in cui ho compreso che tuo fratello, che l’altro mio figlio, li sospettava e che indovinava, minuto per minuto, la verità, tutti gli istanti della mia vita sono stati un martirio che mi è impossibile esprimerti.»
Aveva un tono di voce così doloroso che il contagio della sua tortura riempi di lacrime gli occhi di Jean.
Egli volle baciarla; ma lei lo respinse:
«Lasciami... ascolta... Ho ancora tante cose da dirti perché tu capisca... ma che non capirai... ed è che... se io dovessi restare... bisognerebbe... No, non posso!...»
«Di’, mamma, di’...»
«Ebbene, sì! Almeno non ti avrò ingannato... Tu vuoi che io resti con te, non è vero? Perché questo avvenga, perché possiamo vederci ancora, parlarci, incontrarci tutto il giorno in casa, perché io non oso più aprire una porta per la paura che dietro ci sia tuo fratello, bisogna non che tu mi perdoni... nulla fa più male di un perdono... bisogna che tu ti senta abbastanza forte, abbastanza diverso da tutti da poter dire a te stesso che tu non sei il figlio di Roland senza arrossirne e senza disprezzarmi... Io ho sofferto molto... ho troppo sofferto, non posso più, non posso più! E non è da ieri, sai, è da molto tempo!... Ma tu non potrai mai capirlo! Perché possiamo ancora vivere insieme e baciarci, Jean caro, ripeti bene a te stesso che, se io sono stata l’amante di tuo padre, sono stata ancora di più sua moglie, la sua vera moglie, che, nel profondo del mio cuore, non ne provo vergogna, che non rimpiango niente, che l’amo ancora adesso ch’è morto, che lo amerò sempre, che ho amato soltanto lui, che egli è stato la mia vita, tutta la mia gioia, tutta la mia speranza, tutta la mia consolazione, tutto, tutto, tutto per me per tanto tempo! Stammi a sentire, tesoro: davanti a Dio che mi ascolta, non avrei mai avuto niente di buono nell’esistenza, se non lo avessi incontrato; mai niente, non una tenerezza, non una dolcezza, non una di quelle ore che ci fan tanto rimpiangere di invecchiare, nulla! Gli devo tutto. Non ho avuto che lui, al mondo, e poi voi due, tuo fratello e te. Senza di voi tutto sarebbe stato vuoto, buio e vuoto come la notte. Non avrei mai amato niente, mai conosciuto niente, né avuto alcun desiderio; avrei solo pianto, poiché ho pianto, caro; oh, sì: ho pianto da quando siamo venuti qui. Mi ero data a lui completamente, vita ed anima, per sempre, con gioia e, per oltre dieci anni, sono stata sua moglie com’egli è stato mio marito, davanti a Dio che ci aveva creati l’uno per l’altra. E poi ho capito che egli mi amava meno. Era sempre buono e premuroso, ma io non ero più per lui ciò ch’ero stata. Era finita! Oh, come ho pianto!... Com’è miserabile e ingannatrice, la vita!... Non c’è nulla che duri... E siamo giunti qui: e mai più l’ho rivisto; non è venuto mai... Prometteva in tutte le sue lettere!... Ed ecco che è morto!... Ma ci amava ancora, poiché ha pensato a te. Io lo amerò fino al mio ultimo respiro e non lo rinnegherò mai e voglio bene a te perché sei suo figlio e non potrei vergognarmi di lui davanti a te! Capisci? Non potrei! Se vuoi ch’io rimanga, bisogna che accetti di essere suo figlio, che parliamo di lui qualche volta; che tu gli voglia un po’ bene e che pensiamo a lui quando ci guarderemo. Se non vuoi, se non puoi, diciamoci ora addio. Sarà impossibile restare insieme. Ed ora farò quello che tu deciderai.»
Jean rispose dolcemente:
«Resta, mamma.»
Lei lo strinse tra le braccia e si rimise a piangere. Poi aggiunse, con la guancia contro quella di lui:
«Sì, ma Pierre? Come faremo con lui?»
Jean sussurrò:
«Troveremo bene qualche cosa. Tu non puoi più vivere con lui.»
Al ricordo del figlio, si sentì stringere il cuore dall’angoscia:
«No, non posso più, no! no!»
E gettandosi sul petto di Jean esclamò disperata:
«Salvami da lui, tu, Jean, salvami; fa’ qualche cosa; io non so... trova... salvami!»
«Sì, mamma; cercherò.»
«Subito... è necessario... subito... Non lasciarmi! Ho paura di lui... tanta paura!»
«Sì, troverò, te lo prometto.»
«Oh! Ma presto, presto! Tu non capisci ciò che succede dentro di me quando lo vedo.»
Poi gli mormorò nell’orecchio:
«Tienimi qui, con te.»
Egli esitò, rifletté e comprese, con il suo realistico buon senso, il pericolo di quella situazione.
Ma dovette parlarne a lungo, discutere, combattere con argomenti precisi lo smarrimento e il terrore di lei.
«Solo per questa sera,» diceva lei, «solo per questa notte. Farai dire a Roland che mi sono sentita male.»
«Non è possibile, Pierre è tornato a casa. Su, abbi un po’ di coraggio. Sistemerò ogni cosa, te lo prometto, domani stesso. Alle nove verrò da voi, a casa. Su, mettiti il cappello. Ti accompagno.»
«Farò ciò che vorrai,» disse lei, con un abbandono infantile, timido e riconoscente.
Tentò di alzarsi; ma la scossa era stata troppo forte. Non poteva ancora reggersi sulle gambe.
Allora egli le fece bere un po’ d’acqua zuccherata, respirare dei sali e le bagnò le tempie con l’aceto. Lei lasciava fare, sfinita e sollevata come dopo un parto.
Alla fine poté camminare e si appoggiò al braccio di Jean. Suonavano le tre, quando passarono davanti al municipio.
Alla porta di casa, egli la baciò e le disse: «Ciao, mamma; coraggio.»
Lei salì, furtivamente, la scala silenziosa, entrò nella sua camera, si svestì in fretta e, ritrovando l’emozione dei passati adulteri, si lasciò scivolare accanto a Roland che russava.
Nella casa soltanto Pierre non dormiva e l’aveva sentita tornare.