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XVI
Il sacrifizio
Nella cinta di mirti ombrosa valle,
sacra alla dea d’amor, le siepi chiudono,
in doppio ordin divise, angusto calle.
E con l’edra ritorta e la silvestre
lumbrusca un arco insiem le rose intrecciano,
che sostengono i giunchi e le ginestre.
Sotto quell’arco, su l’altare sacro,
che i rami cercan rispettar, di Venere
sorge di bianco marmo il simulacro.
Limpido ruscelletto la circonda,
che tra i mirti ed i salci, errando, mormora
orgogliosetto su la curva sponda.
I bianchi cigni, cui del sole il lume
colora il collo variopinto, scuotono
nell’acqua il becco e le rombanti piume.
E quando nasce il giorno e quando muore,
voti porgendo, i pastorelli vengono
devoti a salutar la dea d’amore.
Crescevan l’ombre, e le capanne omai
si vedevan fumar da lungi, e ascondersi
dietro del monte i fuggitivi rai.
Allor che il passo al sacro aitar rivolse
Tirsi ed, offrendo un’innocente vittima,
pria di ferirla, sì la voce sciolse:
25— Questa tortora, o dea, di Giove figlia,
Tirsi ti svena: mi sia fida Cloride,
ché la mia fedeltá questa somiglia.
Tu felice la rendi; al mio desire
t’invoco, in seno a lei, diva propizia! —
30Dice, impugna un coltello e vuol ferire.
Clori, che dietro il simulacro resta
gli amati detti ad ascoltar, discopresi
a Tirsi, e il colpo, che scendeva, arresta.
E grida: — Tirsi, a che di sangue l’ara
35contaminar di Citerea? Non amano
sangue gli dèi; la vita altrui li è cara.
Altre vittime chiede! — Allor in faccia
si colorò, chinò le luci e, languida,
cadde di Tirsi fra l’aperte braccia.
40L’augel tremante sen fuggí smarrito:
fu la vittima un bacio; e il sacrifizio
fu, senza sparger sangue, allor compito.