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La Solitudine
Lettera Al Cavaliere Clementino Vannetti
LA SOLITUDINE.



Pien d’un caro pensier, che mi rapiva,
Giunto io mi vidi ove sorgean d’antica
3Magion gli avanzi su deserta riva.
     Cinge le mura intorno alta l’ortica,
E tra le vie della cornice infranta
6L’arbusto fischia, e tremola la spica.
     Scherza in cima la vite, o ad altra pianta
In giù cadendo si congiunge e allaccia,
9E di ghirlande il nudo sasso ammanta:
     E con verde di musco estinta faccia
Sculto Nume qui giace, e l’umil rovo
12Là gran pilastro rovesciato abbraccia.

     M’arresto; e poi tra la folt’erba movo:
Troppo di cardo o spina al piè non cale,
15E nel vóto palagio ecco mi trovo.
     Stillan le volte, e per l’aperte sale
Passa ululando l’Aquilon, nè tace
18Nel cavo sen dell’ozïose scale.
     E pender dalle travi odo loquace
Nido, entro cui tenera madre stassi
21I frutti del suo amor covando in pace.
     Quindi sul campo con gli erranti passi,
Per via diversa dalla prima, io torno.
24Veggo persona tra i cespugli e i sassi.
     Sedea sovra il maggior masso, che un giorno
Sorse nobil meta d’alta colonna:
27Abbarbicata or gli è l’edera intorno.
     M’appresso; ed era ossequïabil Donna:
Scendea sul petto il crine in due diviso,
30E bianca la copria semplice gonna.
     Par che lo sguardo al ciel rivolto e fiso
Nelle nubi si pasca, e tutta pósi
33L’alma rapita nel beato viso.

     Chi sei? le dico; ed ella, i rai pensosi
Chinando, Solitudine m’appello:
36O Diva, sempre io t’onorai, risposi.
     Mettea dal mento appena il fior novello;
Ed uscendo, tu sai che parlo il vero,
39Dal folleggiar d’un giovanil drappello,
     In disparte io traeva; e se un sentiero
Muto e solingo a me s’apria, per esso
42Mi lasciava condur dal mio pensiero.
     Poscia delle città lodai più spesso
Rustico asilo, e più che loggia ed arco,
45Piacquemi un largo faggio e un brun cipresso.
     Questo so ben: ma che sovente al varco
Un Nume t’aspettò, pur mi rammento,
48Rispose, e che per te sonar fe’ l’arco.
     E stato fora allor parlar col vento
Il parlarti de’ campi, e morte stato
51Far un passo lontan dal tuo tormento.
     Ma tutto de’ tuoi giorni era il gran fato
Seguir la tua giovine Maga, e meno
54Curar la vita, che lo starle a lato,

     E dal torbido sempre, o dal sereno
Lume degli occhi suoi pendendo, berne
57L’incendïoso lor dolce veleno.
     È vero, è ver: ma chi mirar l’eterne
Può in man d’Amor terribili quadrella,
60E non alcuna in mezzo al cor tenerne,
     S’egli al fianco si pon d’una donzella,
Che ad una fronte, che qual astro raggia,
63Giunga in sè stessa ogni virtù più bella,
     Che modesta ci sembri, e non selvaggia,
Varia, nè mai volubile, che l’ore
66Viva tra i libri, e pur rimanga saggia?
     Ora l’età, l’esperïenza, e il core
Già stanco, ed il pensier, che ad altro è vólto,
69Di me stesso potran farmi signore.
     Sorrise allor sorriso tal, che al volto
Senza tor maestà crebbe dolcezza,
72La casta Diva; e così dir l’ascolto:
     Molti di me seguir punge vaghezza;
Ma vidi ognor, come a poche alme infondo
75Fiamma verace della mia bellezza.

     Alcun mi segue, perchè scorge immondo
Di vizj e di viltà quantunque ei mira:
78Questi non ama me, detesta il Mondo.
     Non ama me, chi del suo Prence l’ira
Contro destossi, ed in romita villa
81Esule volontario il piè ritira;
     Ma la luce del trono, onde scintilla
Su lui non balza, egli odia, odia l’aspetto
84Del felice rival, che ne sfavilla.
     Non chi la lontananza d’un oggetto
Piange, che prima il fea contento e pago,
87E gli trasse partendo il cor del petto;
     Ma d’un romito ciel si mostra vago,
Per poter vagheggiar libero e oscuro
90Pinta nell’aere l’adorata imago.
     Questi voti d’un cor, che non è puro,
Odio; e di lui, che in me cerca me stessa,
93Solo gli altari e i sagrifizj io curo.
     Ma quanto a pochi è dagli Dei concessa
Alma, che sol di sè si nutre e pasce?
96Che ogni dì, che a lei spunta, è sempre dessa?

     Che ognor vive a sè cara? Uom, che le ambasce
Del rimorso, torcendo in sè la vista,
99Paventerà, questi per me non nasce.
     Questi sol qualche ben nel vario acquista
Tumulto, perchè in lui strugge e disperde
102La conoscenza di sè stesso trista.
     Ma su lucido colle, o per la verde
Notte d’un bosco, co’ pensieri insieme,
105E co’ suoi dolci sogni, in cui si perde,
     Passeggia il mio fedele, e duol nol preme,
Se faccia d’uom non gli vien contro alcuna,
108Perchè sè stesso ritrovar non teme;
     E nel silenzio della notte bruna
Estatiche fissar gode le ciglia
111Nel tuo volto soave, o argentea Luna;
     E per l’ampia degli astri aurea famiglia
Gode volar, di Mondo in Mondo passa,
114Passa di meraviglia in meraviglia.
     Levando allor la fronte trista e bassa,
Deh! grido, se ti spiace il culto mio,
117E che pensi di me, saper mi lassa.

     Il tuo culto sprezzar, no, non poss’io:
Ma scosso appena dalle gialle fronde
120Avrà l’Autunno il lor ramo natio,
     Che tu darai le spalle a queste sponde,
E d’altro filo tesserai la vita
123Ove Città sovrana esce dell’onde.
     Nè però dal tuo core andrà sbandita
La voglia di tornare al bosco e al campo,
126Tosto che torni la stagion fiorita.
     E se nol vieta di due ciglia il lampo,
Se una dolce eloquenza non ti lega,
129Ti rivedrò; nè temo d’altro inciampo.
     Ciò detto, in piè levossi; ed io: Deh! spiega,
Se ancor mi s’apparecchia al core un dardo.
132Ella già mossa: Il labbro tuo mi prega
     Di quel, che dubbio pende anco al mio sguardo.

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