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PROLOGO DELL’EDITORE
ALL’OTTAVA EDIZIONE
uesto libro, che giunge ora alla sua ottava edizione legittima, ha trovato ammiratori anche tra i miei colleghi. Due edizioni contraffatte si vendono pubblicamente a prezzo derisorio, e sono di stampa lurida e sbagliatissime. Altre edizioni mie, come quella delle Odi barbare del Carducci furono contraffatte col nome della mia Ditta in fronte, la mia cifra e persino i miei cataloghi. Ringrazio gli ignoti colleghi (dico ignoti per riguardo alla Questura; ma io li conosco benissimo) i quali vollero dare un tal segno di entusiasmo alle mie pubblicazioni. Li ringrazio dal più profondo del cuore, e nella piena della mia riconoscenza non posso a meno di chiamarli ladri.
Sono vecchio, ma un certo fondo di ingenuità giovanile l’ho sempre conservato; e per questo ricorsi alla legge ed ai suoi esecutori. Di più, misi sossopra mezzo il mondo ufficiale, mi arrabattai, mi arrabbiai, ma dovetti finire collo stampare il libro in carta più comune per darlo a buon mercato e far la concorrenza ai ladri.
Bella conclusione davvero! Dicono che la proprietà letteraria sia tutelata come le altre proprietà, e può darsi. Ma, quanto a me, ho trovato più facile ottener giustizia contro i ladri delle mie galline che contro i ladri delle mie edizioni. Spendendo cento lire in un avvocato posso ottener subito la condanna di chi mi rubò due lire di stracci; ma spendendone anche dugento, non posso, non solo far condannare, ma nemmeno raggiungere chi mi rubò parecchie migliaia di lire.
Ad onor del vero ho trovato tutti gli esecutori della legge, dal Procuratore del Re all’ultimo usciere di Questura, non solo gentili verso di me, ma pieni di zelo pel loro dovere e pienissimi della miglior volontà di farmi rendere giustizia e di constatare e far punire un reato dei più vigliacchi che si possano dare e dei più nocivi all’interesse, non solo degli editori, ma certamente anche della coltura generale che non potrà svilupparsi e crescere se gli autori non saranno un po’ più sicuri dal latrocinio indigeno e un po’ più efficacemente tutelati nell’esercizio dei loro diritti. E mi piace, appunto in questo sfogo di editoria amaritudine, di render giustizia alle egregie persone colle quali ebbi che fare, e riconoscere ingenuamente che non fu colpa loro se non poterono render giustizia a me. Non è di loro che mi lagno, ma di quel complesso di istituzioni sbagliate che rendono illusorio il diritto mio.
Non è un mese, fui condannato dal tribunale di Modena a qualche centinaio di lire di multa per non aver depositato presso quella R. Biblioteca dell’Università i libri che stampo a Modena, ma pubblico a Bologna. Dirò a scanso d’equivoci ed a giustificazione della mia buona fede che, credendo d’esser tenuto ad eseguire il deposito nel luogo della pubblicazione, che è Bologna, e non in quello della esecuzione, che è Modena, depositavo ingenuamente i libri a Bologna nè mi aspettavo quella tegola sul capo. Il tribunale mi disingannò ed io che rispetto la Giustizia del mio paese, chinai riverente il capo, e non pensai nemmeno ad appellarmi. Errai; innocentemente, ma errai, e sta bene che io paghi l’errore.
Ma non ho poi tutti i torti lagnandomi che la legge, la quale condanna anche la mia buona fede, non mi conceda poi, o almeno mi conceda solo a parole, una reciprocità cresimata con tutti i riti legislativi inutilmente. Un furto di galline, l’esposizione di uno straccio rosso sono reati di azione pubblica, immediatamente e debitamente repressi. Invece per un furto come quello del quale mi lagno, è necessaria una sequela di atti e di querele che cambiano in fatto la natura del reato e lo rendono di azione privata, non solo, ma danno agio ai rei di essere avvertiti e di sfuggire all’azione della giustizia punitiva. Non esagero: dico solo quello che è caduto a me. Dico che ho comprato io in persona, alcuni esemplari delle mie edizioni contraffatte in alcune botteghe che, dopo la lunga serie degli atti e delle querele di rito, furono perquisite dall’autorità, la quale come è da credere non trovò nulla, e per poco non mi lavò la testa per aver fatto disturbare a quel modo alcuni pacifici librai.
La colpa non è dunque dell’autorità, che compie il dover suo come la legge prescrive, ma la colpa è delle disposizioni della legge e i miei colleghi tutti lo sanno. Ci è forza tollerare piuttosto i furti e i latrocini d’ogni maniera che esporci al danno ed alle beffe querelandoci. Eppure non si chiede una protezione speciale, non si domanda una inquisizione protezionista a favor nostro; si chiede solo che la nostra proprietà sia veramente proprietà e come non si rubano impunemente i fazzoletti di tasca agli sfaccendali per le vie, così non si rubino i libri agli editori. Non è chieder troppo, e tuttavia se arrivassimo a tanto, ci sembrerebbe di toccar il cielo col dito, e lavoreremmo con più gusto, e pagheremmo gli autori con maggior larghezza. Ora siamo certi che se un libro ha fortuna, uscirà contraffatto e perderemmo tempo e fatica a difendere la nostra proprietà. Dunque paghiamo meno e rispettiamo meno quella legge la quale in compenso degli obblighi non ci dà che diritti illusori.
Concludo dunque che: se la legge ha troppo da fare coi borsaiuoli e coi gallinai per occuparsi efficacemente di un editore cui sono rubate a man salva alcune migliaia di lire; se gli esecutori della legge hanno quindi troppo da fare per cercare le bandierine rosse e le donnine in contravvenzione di patente e non possono occuparsi troppo dei librai che vendono in piazza la roba rubata; bisogna che mi difenda da me cercando di togliere il guadagno ai miei ladri. Ed è quello che faccio.
Non mi dolgo quindi nè della Giustizia nè della polizia come tali: e meno poi delle egregie persone che in questa mia odissea fecero quel che era in loro potere per rendermi possibile l’esercizio dei diritti sanciti inutilmente dalla legge. Mi dolgo solo che l’esempio di una impunità scandalosa, sfregio alla Giustizia che venero, ed irrisione alla Polizia che rispetto, possa incoraggiare altri a così facili furti.
Ed offro ai miei colleghi onesti, vale a dire alla quasi totalità degli editori italiani, l’esempio delle mie inutili querele, de’ miei vani ricorsi, de’ miei inani tentativi per la tutela dei diritti che le leggi fingono di promettermi, perchè si guardino; perchè, non potendo ottenere giustizia, come non ho potuto io, cerchino di guarentirsi in altro modo che in quello prescritto dal legislatore in un momento di ottima digestione, quando si scherza volontieri e si fanno delle promesse per ridere.
- Bologna, maggio 1881.