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Parte prima - IX Parte seconda

Appena rientrati in casa, la signora Giulia, senza dir parola, condusse il ragazzo a dormire, e Alberto andò nel suo studio ad aspettarla. Ma essa non venne: da un sorriso della cameriera, che gli portò il lume, egli capì che s’era rinchiusa nella sua camera. Comparve invece, pochi minuti dopo, il Cambiasi, a cui Alberto corse incontro con uno slancio di affetto e di gratitudine.

Ma quegli l’arrestò, domandandogli in accento di affettuoso rimprovero: - Perché non mi dicesti nulla delle tue nuove idee?

Alberto si scusò: riconosceva d’aver avuto torto a diffidare di lui. Poi proruppe: - Caro Cambiasi! Quanto ti son grato! Tu non puoi immaginare il conforto che m’hai dato! Hai sentito? Potevo frenarmi? Sono stato provocato, insultato! Ti pare che io lo meritassi? che abbia detto delle cose insensate? Dimmi tutto il tuo pensiero, qualunque sia. Non ho mai avuto tanto bisogno della tua amicizia!

Il Cambiasi gli rispose con molta pacatezza. Non si maravigliava del suo cambiamento di idee. Che uomini della sua indole diventassero socialisti dipendeva soltanto dal fatto che, per un caso qualsiasi, s’affacciassero a quella dottrina: conosciutala appena, gli pareva naturale e logico che l’abbracciassero violentemente. Non solo, ma del socialismo egli approvava tutta la parte critica, riconosceva giuste le rivendicazioni. E di più: non giudicava assurdo l’ordinamento collettivista, quale era proposto, credeva che i difetti gravi che esso presentava ancora alla critica, sarebbero stati corretti da ulteriori sforzi della scienza, da nuovi ritrovati dei pensatori, tanto da riuscire un sistema sociale teoricamente inappuntabile e praticamente possibile, il quale, messo in atto, avrebbe segnato un progresso immenso sul sistema attuale. - Ne sono profondamente convinto-, concluse.

Alberto ebbe un impeto di gioia e l’abbracciò, esclamando: - Ma dunque tu sei con noi? Tu hai le mie idee e la mia fede?

- No, Alberto - rispose il Cambiasi.

Alberto fece un atto di stupore.

- Il collettivismo non s’attuerà mai - soggiunse il suo amico. E appoggiato accanto a lui al davanzale della finestra, guardando la piazza già deserta, dove i lampioni della luce elettrica disegnavano dei grandi circoli bianchi, lentamente, col tuono amorevole di chi è costretto a dare un’amarezza a un amico, gli spiegò il suo pensiero. Egli credeva inevitabile, storicamente necessaria una rivoluzione sociale, che mille certissimi segni annunziavano. Ma facendo le passioni più rapido cammino che le idee, la rivoluzione sarebbe scoppiata prima che le moltitudini fossero mature per il mutamento, l’esercito rivoluzionario avrebbe forzato la mano ai suoi capi molto tempo prima d’essere ordinato e educato in modo da poter resistere alle conseguenze della vittoria. Furibonda d’appetiti compressi e istigata da mezzo secolo all’odio della classe dominatrice, la grande massa dei vincitori non si sarebbe contenuta nella moderazione necessaria a instaurare il nuovo ordine di cose. - Neanche un principio di riorganizzazione -, disse - potrà essere attuato. I capi popolari saranno sommersi; quelli che predicheranno la calma saranno trattati come nemici, odiati come i borghesi d’oggi, e peggio, perché parranno traditori; i direttori veri del movimento non saranno i socialisti sinceri ed onesti, che lo dirigono ora, ma quelli senza ideale e senza disciplina, quelli per cui la rivoluzione è scopo a se stessa, e che già vivono ora, e vivranno anche allora, in uno stato d’odio e di guerra permanente contro ogni ordinamento sociale. Guidata da questi, la moltitudine farà man bassa d’ogni cosa, spartirà le proprietà invece di fonderle, si dividerà essa medesima intorno a un’infinità di comitati rivoluzionari, indipendenti prima, e poi nemici, e combattenti fra loro, fin che stanca del disordine e della miseria che ne sarà conseguenza, e presa da un immenso bisogno di riposo lo vorrà e lo otterrà a qualunque costo, anche a costo di tornare indietro, rimandando a un altro secolo l’attuazione del suo ideale. Questa è la mia ferma convinzione, caro Alberto.

Questi si rivoltò, con un sentimento di vero dolore - Ah! non lo dire -, rispose - tu mi togli una troppo cara illusione, dopo quel che hai detto poc’anzi! - E fece ogni sforzo per dissuaderlo. Egli credeva nell’evoluzione e, a evoluzione maturata, in un’azione violenta, ma breve, che non avrebbe prodotto perturbazioni né profonde né durevoli, perché il popolo aveva fatto in civiltà vera un progresso immenso, e acquistato la lucida coscienza che dal disordine dopo la vittoria sarebbe risorto il passato. Alla rivoluzione sarebbe seguito una dittatura politica del proletariato, un periodo educativo di giustizia economica e di collettivismo graduale, di cui anche solo i primissimi vantaggi, evidenti ed immensi, avrebbero mantenuto il popolo composto e concorde. Era impossibile che un così vasto e paziente e illuminato lavoro di preparazione dovesse condurre a una così miseranda delusione! - No, caro Cambiasi -, disse infine -, tu t’inganni. Tu giudichi il movimento socialista da altre rivoluzioni che ebbero un ideale morale e giuridico, a cui la moltitudine non arrivava o era, in fondo, indifferente; ma questa ha un ideale economico, che tutti comprendono e comprenderanno, insieme con le condizioni indispensabili ad attuarlo. Le altre furono parziali, promosse da una sola classe, nel suo solo interesse; quindi i disinganni, i malcontenti, i disordini; ma questa non ha in sé i germi dissolventi perché è universale, preparata in nome della società intera, promossa dal proletariato che fonderà in sé tutte le classi, e non vedrà più l’ombra d’un nemico all’orizzonte!

Il Cambiasi scrollò il capo: era immobile nella sua idea. Anche concedendo che alla rivoluzione vittoriosa non fosse seguito un tal disordine da rendere impossibile ogni prova di riordinamento, egli credeva che questo non si sarebbe mai iniziato a vantaggio di tutti e conforme al disegno attuale del socialismo: i più forti e i più audaci avrebbero volto l’opera a loro profitto; si sarebbe formata anche questa volta, come nella rivoluzione francese, una vastissima setta, somigliante a quella dei Giacobini, che avrebbe steso le sue affigliazioni su tutto il paese, impossessandosi del governo, dell’amministrazione, del tesoro, delle armi, della libertà, una setta d’operai imborghesati e di borghesi travestiti, che, dopo essersi assicurati tutti i privilegi della borghesia antica, avrebbero chiuso la porta dietro di sé, e lasciato fuori la moltitudine degli operai inferiori, un quinto stato sfruttato, scontento e turbolento, destinato a insorgere un giorno contro il socialismo borghese come la democrazia socialista insorge oggi contro la borghesia conservatrice...

- È impossibile! - lo interruppe Alberto - Tu rifai col pensiero la rivoluzione francese, senza veder che tutto è mutato!...

- Lasciami finire, caro Alberto -, rispose amorevolmente il Cambiasi. Io ti voglio fare ancora una concessione. Io voglio supporre che il collettivismo si ponga in atto, per gradi, come tu dici, e senza perturbazioni. Ebbene, io credo che per quanti vantaggi se ne risentissero subito, questi rimarrebbero sempre tanto al di sotto delle speranze delle moltitudini, da riuscire un’amara delusione. L’ha detto un uomo di grande talento, bada. Il socialismo legale non servirebbe che ad acuire gli appetiti di quello illegale. Allo stato che avrà fatto qualche cosa in breve tempo, si domanderebbe perché non fa di più, perché non fa tutto immediatamente; quel poco che rimarrebbe di ineguaglianza sociale e economica riuscirebbe più insopportabile, nella nuova condizione di cose, del molto che ve n’è ora; le passioni ricorrerebbero presto alla violenza; e dalla violenza la società sarebbe precipitata irresistibilmente nel comunismo, che è quanto dire nel caos, da cui risorgerebbe lo stato borghese, tarpato, sformato, io credo, e meno egoista, per necessità, di quel che è ora, ma sempre borghese. Mi rincresce, caro Alberto, di dover esprimere un’opinione che urta la tua. Sarei così felice d’esser d’accordo con te!

Ma Alberto, quasi con l’affanno d’un fanciullo che supplica il fratello di non abbandonarlo in una solitudine, ritornò alla prova, ed espose le sue ragioni con un tale ardore di fede e di parola, con una voce in cui si sentiva così profondamente il fremito dell’anima che ne cerca un’altra, e la speranza della vittoria e il timore della delusione, che il Cambiasi lo guardò qualche momento, quand’ebbe finito, con un senso d’ammirazione affettuosa, mista di tristezza. E non ribatté più.

- T’ho detto quello che penso - disse -. Ma comprendo che tu abbia una fede diversa, e t’ammiro. Senza aver tutte le tue idee, riconosco le ingiustizie e i mali della società, ho simpatia per chi li denunzia e li combatte e credo nel progresso. La tua fede è una forza benefica. Tienla pur viva, e fa quello che t’ispira. Conti di manifestare pubblicamente le tue idee, di scendere, come suol dirsi, nel campo militante?

- Sì - rispose Alberto.

- Sei preparato a lottare?

- Son preparato a tutto.

Il Cambiasi restò un minuto silenzioso; poi disse a bassa voce: - Non sarà fuor di casa che avrai da sostenere le lotte più dure. Alberto lo guardò, e rispose: - Oh, con mio suocero... la guerra è già dichiarata.

- Non sarà con il suocero -, ribatté il Cambiasi, abbassando ancora la voce e dando un’occhiata all’uscio -. Sarà una lotta più intima e più lunga; quella in cui si stancano molte volte anche le tempre più forti, e non vincono che a prezzo di lacerarsi.

- Ah! mia moglie!... - rispose Alberto sorridendo - Essa muterà... finirà con venire alle mie idee.

Il Cambiasi scrollò il capo gravemente, in segno di dubbio, e salutato l’amico con affetto insolito, fissandogli negli occhi uno di quegli sguardi lunghi che si danno sulla prora dei piroscafi a chi parte per un altro mondo, se n’andò, pensieroso.

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