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Parte sesta - VII
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Intanto l’onda della passione - dell’orgoglio offeso e del cuor ferito - saliva in Alberto d’ora in ora, provocata da nuove cagioni, e, per effetto dell’esaltazione e quasi per rappresaglia, l’ardore e l’arditezza delle sue idee. Poche ore prima che gli capitassero i suoi, egli era là, in quella misera camera, intento a scrivere febbrilmente, per sfogo dell’animo. Dei suoi scolari eran venuti la mattina, dei più fidi, a condolersi, con affetto, dell’accaduto; ma, non volendo, gli avevano amareggiato l’anima riferendogli lo strazio scellerato che facevan del suo nome, trionfando, i loro compagni ostili, dopo la sua uscita, e anche di quelli che avevan finto d’esser con lui, mentre c’era. Uscito, aveva avuto un’amara discussione con un amico che non vedeva da un pezzo, uno di quelli che delle commemorazioni patriottiche si fanno uno spasso, un mezzo di réclame e d’interesse, che aveva abbordato l’argomento, esclamando: - Ma la patria! La patria! Tu, con la setta che rinnega la patria! - Rientrato, aveva trovato sul tavolo delle infami lettere anonime, in cui gli eran attribuiti i più bassi moventi. E anche tra queste sozze lettere era toccato il tasto della patria. Ah! Ora egli aveva le sue idee sull’argomento. Lo capiva bene il gioco che faceva il "patriottismo" in quella vasta società anonima mercantile, di cui i borghesi son gli azionisti, e che ha per ragione sociale il nome del loro paese! Come se ne sapevan servire per distrarre le moltitudini dalla vera quistione che le interessa, come erano abili a tener vivo lo spauracchio d’un pericolo esterno continuo, per mascherare i mali interni immutabili, a fare che la vita nazionale fosse un carnevale quasi non interrotto di evocazioni "gloriose" del passato! La nazionalità che era stata uno strumento di civiltà, facendo un fascio di ciò che era sparso, creando una forza dove non v’era che debolezza, un diritto dove regnava la violenza, - si voleva che rimanesse ora il più alto degli ideali, e sbarrar con esso la via al movimento sociale, che doveva logicamente seguire il movimento nazionale. Ma essa non era più che una larva, nata dal concetto d’una necessaria opposizione d’interessi fra le nazioni, tenuto vivo per tutto dalla stessa classe. L’aveva definito bene il Rateri: - La carcassa d’un ideale putrefatto. I più scalmanati a darle un’apparenza di vita, eran quelli che, dentro, se ne ridevano; gli stessi che, negando Iddio, predicavan la religione per il popolo; i pasciuti, gli ambiziosi, i predoni del denaro pubblico, i patriotti che dalla patria s’eran fatti pagare il conto dell’eroismo e della generosità! E una folla d’ingenui ci credeva e, abituata fin dall’infanzia alla stupida genuflessione, adorava l’idolo, biascicando delle vecchie preghiere barbariche, vittima e zimbello inconsciente della gigantesca impostura!... - Una banda militare passò in quel punto in via Santa Teresa. - Quella musica, che un tempo l’entusiasmava, gli fece un violento effetto di repulsione. Era la voce del passato, era l’espressione d’un entusiasmo bugiardo, un inno cantato stupidamente dai servi e dagli sfruttati alla propria servitù, alla propria miseria, e alle proprie ignoranze! A tutti i parassiti, a tutti i ladroni della società quelle armonie mettevano una dolcezza e un brivido d’entusiasmo nell’animo. Il Geri stesso si commoveva. A questo nome, la sua faccia verde gli si presentò, come la faccia tipica, l’insegna vivente della sua classe, resa più odiosa dal sorriso che vi doveva brillare, per la gioia di vederlo espulso da scuola, lontano dalla famiglia, calunniato e deriso. E mentalmente, vi sputò sopra, e lo cacciò dal suo pensiero con uno schiaffo.

In quel punto, picchiavan all’uscio, ed entrarono Barra e Calotti. Erano stati a cercarlo a casa, dove avevan saputo il suo indirizzo. Egli arrossì leggermente al vederli, pensando alla separazione che dovevano indovinare. Ma fu subito consolato, e quasi commosso dalla semplice e quasi puerile delicatezza del loro contegno. Entrando, guardarono lui, le sue carte e la camera con un’aria di stupore - capirono - si scambiarono uno sguardo come per accertarsi che avevan capito davvero tutti e due - e poi rimasero silenziosi, un po’ imbarazzati, come se si vergognassero e chiedessero scusa d’aver scoperto un segreto. E Alberto vide in tutti e due un’espressione di pietà per le amarezze che indovinavano, e di cresciuto rispetto per lui, che per la loro causa s’era ridotto a quel punto. Eran venuti per un’altra conferenza. Ma non osavano parlarne col calore e con l’insistenza a cui si erano preparati. Solo l’organizzatore raccontò gran cose degli effetti della prima, - quasi tutti gli uditori, che non l’erano ancora, s’erano iscritti al partito - s’erano fatte delle riconciliazioni - se ne parlava ancora da per tutto - molti avevano preso appunti, e se ne servivano per la propaganda. Egli ne promise un’altra, e cercò di compensare con parole amorevoli l’esitazione che aveva mostrata da principio. Dopo salutatolo, il Barra si voltò ancora a guardarlo, mentre il Calotti era già fuori, come se avesse un pensiero. Poi gli disse piano: - Signor Bianchini... sono un povero giovane... ma un amico. In ogni caso, lei lo sa: le darei la mia vita. -

Una commozione improvvisa, violenta scosse Alberto. E, senza una parola, lo afferrò per le spalle e lo baciò sulla fronte. Il Barra rise, d’un riso strano, come soffocato; e se n’andò sorridendo, con gli occhi bagnati.

Il Bianchini era ancora sotto questa impressione, rasserenato, tutto al suo articolo, per cui gli s’affollavano le idee e le parole, - quando udì una voce sul pianerottolo che gli fece cader la penna di mano e slanciarsi all’uscio d’un salto. Egli abbracciò il ragazzo con tale slancio, e se lo portò vicino alla finestra con tale trasporto di tenerezza, coprendogli il capo di baci, e serrandolo fra le ginocchia, che quasi non s’avvide subito delle persone che l’accompagnavano; un momento dopo, alzando gli occhi, non gli parve nemmeno strano di veder con la suocera sua sorella. Questa gli si gettò al collo con passione, piangendo.

- Ah! Alberto, Alberto mio! - esclamò la suocera, commossa da quella scena - che cos’hai fatto! Che cos’hai fatto, povero figliuol mio!

E non potendo più reggere, s’andò a abbandonar sul sofà dall’altra parte della camera.

Allora Alberto, ancora ansante, senza sciogliersi dalle braccia del ragazzo che gli stava appiccato, col viso contro la spalla, interrogò la sorella. Come era venuta? Come l’avevan lasciata venire? - e notò una straordinaria eccitazione in lei.

Una scena violenta era seguita in casa. La mamma non voleva lasciarla venire. Finalmente, il cuore le scoppiava da un pezzo - non ne poteva più - aveva sfogato l’anima. E l’aveva gridato con tutte le sue forze: Alberto aveva ragione, - il solo che avesse cervello e cuore - il solo di tutti - il solo buono, giusto, generoso - nessuno era degno di stargli accanto, nessuno lo capiva; eran loro la causa di tutto! mai sarebbe seguito quello che era seguito se non l’avessero disconosciuto, irritato, tormentato, avvilito! Ora era solo e infelice! Era un’infamia. Essa lo voleva vedere, a qualunque costo! - Mamma s’era messa a traverso, e l’aveva minacciata. E allora essa aveva gridato: - Mi lasci andare, o la finisco con la vita! - e in tal modo l’aveva detto, che la mamma aveva dato indietro e l’aveva lasciata passare. - Ora son qui - esclamò con trasporto - ti vedo, ti sento; riprendo forza e coraggio per un mese!

La suocera si riavvicinò, e mettendogli una mano sulla spalla, tornò a dire, con accento di dolorosa pietà: - Ah! Figliuol mio! Che cos’hai fatto, povero figliuol mio!

Alberto le prese una mano, con affetto: - Non ho fatto che del bene, - rispose, - lo creda. E soggiunse sorridendo: - Ma se c’è una donna che dovrebbe capirmi e darmi ragione, è lei, mamma, che è così buona e credente in Dio! Di lei sola non mi so capacitare che non m’approvi.

- Ah! Non di queste cose! - esclamò la suocera con vero dolore - Come puoi scherzare su queste cose? Come posso io avere quelle... disgraziate idee, quelle terribili idee, che saranno la tua sventura e la nostra?

- Ah! mamma - rispose affettuosamente sorridendo - Cattiva cristiana! Lei chiama disgraziate idee voler distruggere le sorgenti della miseria, dando a tutti il lavoro e tutto il prodotto del lavoro, e crescendo la produzione delle ricchezze con l’associazione e la concordia di tutte le forze, uccidere gli odi, fare cessare le disuguaglianze ingiuste, affratellando i popoli, facendo cessare lo spargimento del sangue? Ah mamma! ma questo non voleva Gesù Cristo, il protettore dei derelitti, dei perseguitati, dei tribolati, quello che disse al giovine ricco: - Va, vendi ciò che hai, e dallo ai poveri? e che voleva la giustizia, l’amore e la pace?

- Oh, ma Alberto, non è la stessa cosa!

- E perché, mamma, non è la stessa cosa? Crede che se tornasse al mondo non avrebbe orrore di quello che accade? che non direbbe che invece di trasformarsi secondo la sua religione, la società ha trasformato questa ad immagine propria? E se ricominciasse a predicare i suoi precetti, credi tu che sarebbero i signori che gli andrebbero dietro, o piuttosto noi e le moltitudini di cui difendiamo la causa? Ma, cara mamma, tutto questo movimento sociale non è che la sua dottrina che risorge, un soffio dell’anima sua che ripassa sul mondo!

- Oh non lo dire! - disse lei, turandogli amorevolmente la bocca, - ma agitata da quelle parole.

- Sì - continuò - lo debbo dire. Ognuno di noi, consciente o no, volente o no, predica la sua dottrina, lo comprende e lo venera. Ma io non l’ho mai compreso ed amato come dopo che ho queste idee. Ma questa pietà, questo amore del bene, questa passione che mi fa lottare, affrontare dolori, fuggir la famiglia, che è la mia gioia, il mio orgoglio e la mia tortura, non è che una scintilla dell’amore infinito ch’egli accese nel mondo. Sì, io l’ho pel passato disconosciuto e scordato; ma ora ritorno a lui, lo penso sempre, lo riconosco, lo invoco, lo amo, come se lo avessi visto morire. E guarda, mamma - disse prendendo fra le dita la crocetta che le pendeva nel seno - sono ventisette anni, da quando ho fatto la mia ultima comunione, che non ho più baciato la croce. Ebbene, la ribacio ora - e la baciò - con tutta l’anima mia!

La suocera rimase un momento sbalordita; - mormorò fiocamente: - Non so... non capisco... - e poi diede in uno scoppio di pianto.

Alberto e Ernesta la colmarono di carezze. Essa si rimise, ma non seppe più trovare una parola, confusa, senza saper che pensare, e pur pensierosa.

- E a Giulia -, domandò poi timidamente, al momento d’andarsene - ... che ho da dire?... che non le vuoi più bene?

- Oh no! - rispose Alberto, ripreso dalla tristezza al momento di separarsi dal ragazzo, di cui non aveva lasciato un momento le mani - Io le voglio bene sempre... Ma non ho niente da farle dire.

Seguì un silenzio.

- Quando torni a casa, papà? - domandò il ragazzo. Egli si sentì una trafitta al cuore.

- Ma Alberto -, disse a bassa voce la suocera, con gran dolore - questa situazione non può durare... Che conti di fare?... Come finirà questo?...

Quel pensiero non gli s’era mai presentato con così trista evidenza. Sì, la situazione non poteva durare. Come sarebbe finita?... Stette un po’ pensando, con la mano sul capo del ragazzo, con una grande tristezza. E allora un pensiero gli risorse in capo - quel pensiero oscuro d’un avvenimento terribile, ma remoto, fatale per lui - che altre volte gli s’era presentato. E rispondendo a quella domanda, come finirà questo? rispose mestamente: - Finirà. - Poi soggiunse a fior di labbra: - Ho un presentimento.

Gli domandaron quale, tutte e due, ansiosamente. Egli non rispose.

Poi baciò e ribaciò il ragazzo con trasporto, e si alzò risolutamente, dicendo: - Addio... a rivederci.

La suocera s’avviò all’uscio, scorata e commossa, col ragazzo tristo. E la sorella gli disse nell’orecchio, con infinita passione, che faceva fremere tutto il suo esile corpo: - Addio, Alberto! Se avrai bisogno di me, chiamami, io fuggirò, verrò con te, non vivrò più che per te, morirò con te! - E baciatolo con impeto, fuggì via.

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