< Prose della volgar lingua < Libro secondo
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Ora a dire del numero passiamo, facitore ancora esso di queste parti, in quanto per lui si può, che non è poco; il qual numero altro non è che il tempo che alle sillabe si dà, o lungo o brieve, ora per opera delle lettere che fanno le sillabe, ora per cagione degli accenti che si danno alle parole, e tale volta e per l’un conto e per l’altro. E prima ragionando degli accenti, dire di loro non voglio quelle cotante cose che ne dicono i Greci, piú alla loro lingua richieste che alla nostra. Ma dico solamente questo, che nel nostro volgare in ciascuna voce è lunga sempre quella sillaba, a cui essi stanno sopra, e brievi tutte quelle, alle quali essi precedono, se sono nella loro intera qualità e forma lasciati; il che non avien loro o nel greco idioma o nel latino. Onde nasce, che la loro giacitura piú in un luogo che in un altro, molto pone e molto leva o di gravità o di piacevolezza, e nella prosa e nel verso. La qual giacitura, perciò che ella uno di tre luoghi suole avere nelle voci, e questi sono l’ultima sillaba o la penultima o quella che sta alla penultima innanzi, con ciò sia cosa che piú che tre sillabe non istanno sott’uno accento comunemente, quando si pone sopra le sillabe, che alle penultime sono precedenti, ella porge alle voci leggerezza, perciò che, come io dissi, lievi sempre sono le due sillabe a cui ella è dinanzi, onde la voce di necessità ne diviene sdrucciolosa. Quando cade nell’ultima sillaba, ella acquista loro peso allo ’ncontro; perciò che giunto che all’accento e il suono, egli quivi si ferma, e come se caduto vi fosse, non se ne rileva altramente. E intanto sono queste giaciture, l’una leggiera e l’altra ponderosa, che qual volta elle tengono gli ultimi loro luoghi nel verso, il verso della primiera cresce dagli altri d’una sillaba, et è di dodici sempre, ché le ultime due sillabe, per la giacitura dell’accento, sono sí leggiere, che dire si può che in luogo d’una giusta si ricevano:

Già non compié di tal consiglio rendere;

e quello dell’altra, d’altro canto, d’una sillaba minore degli regolati è sempre, e piú che dieci avere non ne può, il che è segno che il peso della sillaba, a cui egli soprastà, è tanto, che ella basta e si piglia per due:

Con esso un colpo per la man d’Artú.

Temperata giacitura, e di questi due stremi libera, o piú tosto mezzana tra essi, è poscia quella che alle penultime si pon sopra; e talora gravità dona alle voci, quando elle di vocali e di consonanti, a ciò fare acconcie, sono ripiene; e talora piacevolezza, quando e di consonanti e di vocali o sono ignude e povere molto, o di quelle di loro, che alla piacevolezza servono, abastanza coperte e vestite. Questa, per lo detto temperamento suo, ancora che ella molte volte una appresso altra si ponga e usisi, non per ciò sazia, quando tuttavolta altri non abbia le carte preso a scrivere et empiere di questa sola maniera d’accento, e non d’altra; là dove le due dell’ultima e dell’innanzi penultima sillaba, agevolmente fastidiscono e sazievoli sono molto, e il piú delle volte levano e togliono e di piacevolezza e di gravità, se poste non sono con risguardo. E ciò dico per questo, che esse medesime, quanto si conviene considerate, e poste massimamente l’una di loro tra molte voci gravi, e questa è la sdrucciolosa, e l’altra tra molte voci piacevoli, possono accrescere alcuna volta quello che elle sogliono naturalmente scemare. Che sí come le medicine, quantunque elle veneno siano, pure, a tempo e con misura date, giovano, dove, altramente prese, nuocono e spesso uccidono altrui, e molti piú sono i tempi, ne’ quali elle nocive essere si ritroverebbono, se si pigliassero, che gli altri; cosí queste due giaciture degli accenti, ancora che di loro natura elle molto piú acconcie sieno a levar profitto, che a darne, nondimeno alcuna volta nella loro stagione usate, e danno gravità e accrescono piacevolezza. Ponderosi, oltre a questo, sempre sono gli accenti che cuoprono le voci d’una sillaba; il che da questa parte si può vedere, che essi, posti nella fine del verso, quello adoperano, che io dissi, che fanno gli accenti posti nell’ultima sillaba della voce, quando la voce nella fine del verso si sta, ciò è che bastano e servono per due sillabe:

Quanto posso mi spetro, e sol mi sto.

E se in Dante si legge questo verso, che ha l’ultima voce d’una sillaba, e nondimeno il verso è d’undici sillabe:

E piú d’un mezzo di traverso non ci ha,

è ciò per questo che non si dà l’accento all’ultima sillaba, anzi se le toglie, e lasciasi lei all’accento della penultima; e cosí si mandan fuori queste tre voci Non ci ha, come se elle fossero una sola voce, o come si mandan fuori Oncia e Sconcia, che sono le altre due compagne voci di questa rima. Sono tuttavolta questi accenti piú e meno ponderosi, secondo che piú o meno lettere fanno le loro voci, e piú in sé piene o non piene, e a questa guisa poste o a quell’altra.

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