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Dirò adunque della terza causa, generante ancor lei in comune le dette due parti richieste allo scriver bene; e ciò è la variazione non per altro ritrovata, se non per fuggire la sazietà, della quale ci avertí dianzi messer Carlo che ci fa non solamente le non ree cose, o pure le buone, ma ancora le buonissime verso di sé e dilettevolissime spesse volte essere a fastidio, e allo ’ncontro le non buone alcuna fiata e le sprezzate venire in grado. Per la qual cosa, e nel cercare la gravità, dopo molte voci di piene e d’alte lettere, è da porne alcuna di basse e sottili; e appresso molte rime tra sé lontane, una vicina meglio risponderà, che altre di quella medesima guisa non faranno; e tra molti accenti che giacciano nelle penultime sillabe, si dee vedere di recarne alcuno, che all’ultima e alla innanzi penultima stia sopra; e in mezzo di molte sillabe lunghissime, frametterne alquante corte giugne grazia e adornamento. E cosí, d’altro canto; nel cercare la piacevolezza, non è bene tutte le parti, che la ci rappresentano, girsi per noi sempre, senza alcun brieve mescolamento dell’altre, cercando e affettando. Perciò che là dove al lettore con la nostra fatica diletto procacciamo, sottentrando per la continuazione, or una volta or altra, la sazietà, ne nasce a poco a poco e allignavisi il fastidio, effetto contrario del nostro disio. Né pure in queste cose che io ragionate v’ho, ma in quelle ancora che ci ragionò il Bembo, è da schifare la sazietà il piú che si può e il fastidio. Perciò che e nella scielta delle voci, tra quelle di loro isquisitissimamente cercate vederne una tolta di mezzo il popolo, e tra le popolari un’altra recatavi quasi da’ seggi de’ re, e tra le nostre una straniera, e una antica tra le moderne, o nuova tra le usate, non si può dire quanto risvegli alcuna volta e sodisfaccia l’animo di chi legge; e cosí un’altra un poco aspera tra molte dilicate, e tra le molte risonanti una cheta, o allo ’ncontro. E nel disporre medesimamente delle voci, niuna delle otto parti del parlare, niuno ordine di loro, niuna maniera e figura del dire usare perpetuamente si conviene e in ogni canto; ma ora isprimere alcuna cosa per le sue proprie voci, ora per alcun giro di parole, fa luogo; e questi medesimi o altri giri, ora di molte membra comporre, ora di poche, e queste membra, ora veloci formare, ora tarde, ora lunghe, ora brievi, e in tanto in ciascuna maniera di componimenti fuggir si dee la sazietà, che questo medesimo fuggimento è da vedere che non sazii, e nell’usare varietà non s’usi continuazione. Oltra che sono eziandio di quelle cose le quali variare non si possono; sí come sono alcune maniere di poemi di quelle rime composti, che io regolate chiamai; con ciò sia cosa che non poteva Dante fuggire la continuazione delle sue terze rime, sí come non possono i Latini, i quali eroicamente scrivono, fuggire che di sei piedi non siano tutti i loro versi ugualmente. Ma queste cose tuttavolta sono poche; dove quelle che si possono e debbono variare, sono infinite. Per la qual cosa né di tutte quelle, delle quali è capevole il verso, né di quelle tutte, che nelle prose truovano luogo, recar si può particolare testimonianza, chi tutto dí ragionare di nulla altro non volesse. Bene si può questo dire che di quelle, la variazione delle quali nelle prose può capere, gran maestro fu, a fuggirne la sazietà, il Boccaccio nelle sue novelle, il quale, avendo a far loro cento proemi, in modo tutti gli variò, che grazioso diletto danno a chi gli ascolta; senza che in tanti finimenti e rientramenti di ragionari, tra dieci persone fatti, schifare il fastidio non fu poco. Ma della varietà che può entrar nel verso, quanto ne sia stato diligente il Petrarca, estimare piú tosto si può, che isprimere bastevolmente; il quale d’un solo suggetto e materia tante canzoni componendo, ora con una maniera di rimarle, ora con altra, e versi ora interi e quando rotti, e rime quando vicine e quando lontane, e in mille altri modi di varietà, tanto fece e tanto adoperò, che, non che sazietà ne nasca, ma egli non è in tutte loro parte alcuna, la quale con disio e con avidità di leggere ancora piú oltra non ci lasci. La qual cosa maggiormente apparisce in quelle parti delle sue canzoni, nelle quali egli piú canzoni compose d’alcuna particella e articolo del suo suggetto; il che egli fece piú volte, né pure con le piú corte canzoni, anzi ancora con le lunghissime; sí come sono quelle tre degli occhi, le quali egli variando andò in cosí maravigliosi modi, che quanto piú si legge di loro e si rilegge, tanto altri piú di leggerle e di rileggerle divien vago; e come sono quelle due piacevolissime, delle quali poca ora fa vi ragionai, perciò che estimando egli che la loro piacevolezza, raccolta per gli molti versi rotti, potesse avilire, egli alquante stanze seguentisi, con le rime acconcie a generar gravità, diè alla primiera, e questa medesima gravità, affine che non fosse troppa, temperò con un’altra stanza, tutta di rime piacevoli tessuta allo ’ncontro. Nel rimanente poi di questa canzone, e in tutta l’altra, e all’une rime e all’altre per ciascuna stanza dando parte, fuggí non solamente la troppa piacevolezza o la troppa gravità, ma ancora la troppa diligenza del fuggirle. Somigliante cura pose molte volte eziandio in un solo verso, sí come pose in quello che io per gravissimo vi recitai:
Fior’, frondi, erbe, ombre, antri, onde, aure soavi.
Con ciò sia cosa che conoscendo egli che se il verso tutto si forniva con voci, e per conto delle vocali, e per conto delle consonanti, e per conto degli accenti pieno di gravità, nella guisa nella quale esso era piú che mezzo tessuto, poteva la gravità venire altrui parendo troppo cercata e affettata e generarsene la sazietà, egli lo forní con questa voce, Soavi, piena senza fallo di piacevolezza, e veramente tale, quale di lei è il sentimento, e a questa piacevolezza tuttavolta passò con un’altra voce in parte grave e in parte piacevole, per non passar dall’uno all’altro stremo senza mezzo. I quali avertimenti, come che paiano avuti sopra leggiere e minute cose, pure sono tali che, raccolti, molto adoperano, sí come vedete.