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Aleksandr Sergeevič Puškin - Pultava (1828)
Traduzione dal russo di Louis Delâtre (1856)
II
I III

II.

Mazeppa è mesto. Atroci pensieri sconvolgono quel cuore. Maria con tenerezza mira il consorte. Abbracciata ai suoi ginocchi, essa gli ripete dolci asserzioni d’amore. Ma nè le preci nè i vezzi valgono a sperdere quei tetri presentimenti. L’etmanno disattento figge gli occhi a terra, e non risponde che con un gelido silenzio quelle graziose premure, a quei dolci rimproveri. Attonita, sdegnata, finalmente la bella si alza ed esclama: “Senti, etmanno; io per te ho rinunziato a tutto. Io coll’amarti non bramava che una cosa: essere amata. Per te distrussi io la mia felicità. Ma non me ne pento. Tu ti ricordi quella notte placida in cui mi feci tua? Tu giurasti di amarmi. Perchè non m’ami più?”

Mazeppa. Sei ingiusta, amica. Cessa di vaneggiare: lascia codesti edaci sospetti. La passione ti tormenta e ti rende ingiusta. Credimi, Maria; io ti amo più della gloria, più dell’autorità sovrana.

Maria. Mênti; m’inganni. Quant’è che non stavamo mai l’un senza l’altro? Ora, tu mi fuggi; io t’importuno. Meni i giorni interi nei banchetti, nei crocchi, in compagnia degli anziani. A me non pensi più. Passi le notti tutto solo, o coll’incognito o col gesuita. Contraccambi il mio sincero amore con una fredda urbanità. Poco fa bevesti alla salute di Dulsca. Chi è cotesta Dulsca?

Mazeppa. Sei gelosa? Come puoi supporre che un uomo della mia età solleciti i favori d’una disdegnosa giovinetta? Come potrei io avvilirmi a segno di porgere il piede a infame laccio e di sedurre le donne a forza di smorfie e di sospiri? Questo io lascio ai zerbinotti imbelli.

Maria. Parla senza raggiri; rispondimi con schiettezza.

Mazeppa. Mi preme la tua tranquillità, Maria; dunque ascolta. Abbiamo concepito una alta impresa; siamo in procinto di porla a esecuzione; squillò l’ora del gran cimento. Già da più secoli, o Ucrania, pieghi la fronte ingloriosa e schiava, sotto il ferreo giogo dei tuoi protettori e dei tuoi tiranni di Varsavia o di Mosca. È tempo che tu rompa i tuoi ceppi, e ricuperi l’indipendenza; io inalbero lo stendardo della libertà contro la bandiera di Pietro. Tutto è pronto; i due re trattano meco; e fra poco forse, in mezzo alle rovine e alle battaglie, io erigerò un nuovo trono. Ho aderenti fidati; la principessa Dulsca, il gesuita e l’incognito guidano la mia barca a buon porto. Per le loro mani mi pervengono le istruzioni e i consigli dei re. Questi sono secreti molto gravi per il tuo petto. Ora sei paga? Ti senti sollevata?

Maria. Sarai dunque re delle patrie contrade. Oh! come converrà al tuo capo canuto la corona dei Zar!

Mazeppa. Piano; non è fatto ancor nulla. La rivoluzione si prepara; ma chi sa quale ne sarà l’esito?

Maria. Per te non temo. Sei così potente! Non ne dubito; il trono ti aspetta.

Mazeppa. E se fosse il patibolo?

Maria. Ebbene, ci andremo insieme. Come potrei sopravvivere a te? Ma no; tu porti le insegne dei principi.

Mazeppa. Mi ami?

Maria. Io! se t’amo?

Mazeppa. Dimmi. Chi più ami, il padre o il marito?

Maria. A che una tal domanda? Essa mi spaventa. Io fo di tutto per obliare la mia famiglia. Io l’ho disonorata; forse..... orrendo sospetto! mio padre m’ha maledetta! e per chi?...

Mazeppa. Mi ami dunque più del genitore? Non rispondi....

Maria. Dio mio!

Mazeppa. Rispondi alfine.

Maria. Rispondi tu per me.

Mazeppa. Odi. Se tu dovessi perdere il padre o il marito; se potessi scegliere fra loro, chi salveresti? chi condanneresti?

Maria. Basta così. Non mi squarciare il cuore. Tu mi tenti.

Mazeppa. Rispondi.

Maria. Impallidisci.... Il tuo parlare m’empie d’orrore.... Ah! non adirarti! Sono pronta a sacrificar tutto per te; ma simili domande mi straziano senza utilità. Lasciale.

Mazeppa. Ricordati, Maria, di quel che ora dicesti.


La notte è placida; il cielo è limpido; le stelle brillano. Il vento stanco dorme nelle caverne alpestri. Appena tremolan le mobili fronde dei pioppi. La luna splendida riverbera sui campanili della Chiesa Bianca,1 sui giardini e sul castello dell’etmanno. La campagna intorno intorno tace. Ma una grande agitazione e confusione regna nel palazzo. Affacciato alla finestra d’una torre, Cocciu-bei immerso in profonde riflessioni guarda il cielo con tristezza.

Dimane Cocciu-bei perirà. Egli andrà senza timore incontro alla morte; non gli cale della vita. Che è per lui la tomba? Un grato letto. È pronto a coricarvisi. Non gli incresce il supplizio, ma solo il modo in cui vi è condannato. Gli incresce di spirare ai piedi dell’aborrito seduttore di sua figlia, gli incresce di morire in silenzio, come bove al macello, e per ordine del suo Zar che lo abbandona in balía del suo nemico. Gli incresce di perder l’onore; di trascinar seco nella fossa i suoi compagni; di udir le loro maledizioni immeritate; di incontrare lo sguardo trionfante dell’assassino, mentre cadrà innocente sotto la scure infame; di non aver nessuno cui fare erede del suo odio e mandatario delle sue vendette!

Gli torna alla mente Pultava e la dolce famiglia e i dolci amici, le sue ricchezze, la sua gloria, i canti della gentil Maria, la antica casa nella quale egli nacque, dove fu nutrito, ove conobbe la fatica e il riposo e tutto ciò che gli molceva il cuore; tutto ciò che ora egli abbandona, e perchè?

La chiave stride nella toppa arrugginita. Lo sventurato bei, risvegliato da quel suono, pensa fra sè: “Ecco il banditore della Croce che viene per scortarmi al patibolo. Ecco l’assolutore dei peccati, il medico delle piaghe della coscienza; il servo di Cristo immolato per noi. Mi reca il corpo e il sangue del mio Dio, per rinfrancarmi l’animo, per darmi la virtù di disprezzar la morte e di acquistar l’eterna vita!”

E Cocciu-bei si dispone a spargere davanti all’Onnipotente le preghiere e le lacrime. Ma colui che entra nel suo carcere non è un sacerdote; è Orlic, ministro di Mazeppa. Fremente di sdegno e di ribrezzo egli grida: “Tu qui, belva? Perchè vieni a turbare il mio ultimo sonno?”

Orlic. L’esame tuo non è finito. Rispondi.

Cocciu-bei. Già risposi. Parti e lasciami in pace.

Orlic. L’etmanno nostro signore esige un’altra rivelazione.

Cocciu-bei. Di che? Io già confessai tutto ciò che voleste. Tutte le mie dichiarazioni sono menzognere. Io son perfido e tendo insidie. L’etmanno è probo. Che volete di più?

Orlic. Noi sappiamo che possedevi immensi tesori, e che gli hai nascosti a Dicagne. Convien che tu paghi i delitti col sangue, e che il tuo oro passi nelle casse dell’esercito. Così detta la legge. Io te la fo palese. Dimmi; ove sono i tuoi tesori?

Cocciu-bei. Sì; hai ragione: Dio per mio conforto mi largiva in questa vita tre tesori. Il primo mio tesoro era l’onore; le torture me l’han rapito: il secondo era mia figlia; Mazeppa l’ha svelta dalle mie braccia, Mazeppa l’ha contaminata: il terzo tesoro tuttora mi resta: è la speme della vendetta. Questo lo porto meco nella tomba.

Orlic. Vecchio, cessa le vane ciance. Sul punto di lasciar la vita, di più gravi pensieri devi pascer la mente. Non è tempo di scherni nè di beffe. Se non vuoi sottoporti a nuove torture, rispondi: ove s’asconde il tuo tesoro?

Cocciu-bei. Barbaro mancipio! Quando cesserai le tue dimande inutili? Aspetta che io giaccia nel sepolcro, poi va con Mazeppa nel mio palazzo, conta il mio retaggio colle tue mani grondanti del mio sangue; fruga i miei sotterranei; devasta i miei giardini, abbatti le mie case. Chiama mia figlia; essa ti scoprirà le mie ricchezze. Ho detto. Lasciami in pace, per l’amor di Dio.

Orlic. Ove hai sepolto il tuo denaro? Parla. Paventa l’effetto del tuo rifiuto. Insegnami il luogo appunto. Non vuoi? — Ebbene, alla tortura! Olà, boia!”

Il boia comparve.... Oh notte atroce!


Ma dov’è l’etmanno? Dov’è il crudele? Dove assopisce i rimorsi della sua coscienza?

Mazeppa, accigliato e muto, siede nella camera della giovinetta, che nulla sa della prigionia del pa dre. Egli china la testa sul letto della bella che dor me, e fra sè dice: “Il folle Cocciu-bei morrà. Non posso graziarlo. Più m’approssimo alla meta, più convien ch’io tratti con rigore i miei nemici, e tutti coloro che ricusan di piegarsi al mio scettro. Non v’ha scampo: il delatore e il suo complice periranno.”

Allora gettando un rapido sguardo sul letto, soggiunge:

“O Dio! Che sarà di essa quando udrà l’orrendo annunzio? Fin qui essa ignora tutto! ma il secreto non può celarsi più a lungo. Il colpo della fatale scure echeggerà per tutta l’Ucrania. La fama volerà attorno spandendo l’infausta notizia.... Ora vedo a chi riserba il cielo le più severe prove.... Colui solo può sfidare la folgore che non unì una donna al suo destino. È demenza aggiogare allo stesso carro l’intrepido destriero e la timida damma. Commessi una imprudenza; ora ne pago il fio. Tutti quei dolci fiori che fan gioconda l’esistenza, essa me li recò in dote, essa ne incoronò la mia truce vecchiaia.... E che le offro io in contraccambio?... Che dono le appresto?... Ahimè lasso!...”

E Mazeppa contempla la bella che riposa sì tranquilla sulle piume. Le labbra son socchiuse, il respiro è quieto; il cuore batte lentamente in quel niveo seno.... Ma dimane!.... Mazeppa a quell’idea ritorce la vista dal letto, s’alza, ed a passi lenti si incammina verso il solitario suo giardino.

La notte è placida; il cielo è limpido; le stelle brillano. Il vento stanco dorme nelle caverne alpestri. Appena tremolano le argentee fronde dei pioppi. Nere idee sorgono e s’aggirano per l’animo dell’etmanno. Le faci della notte lo mirano e lo spiano come tanti occhi indagatori. I pioppi stretti in lunga fila, crollando di tanto in tanto il capo, susurrano fra loro, come giudici al fôro. L’aria è ardente come la vampa d’una fornace.

Un flebil grido, un gemito indistinto sembra escir dalle mura del castello. Forse fu un suono imaginario, lo strido d’un gufo, o l’urlo d’una belva, o il cigolío d’una tortura. Mazeppa tornando in sè a quel grido prolungato e funebre, vi risponde con un grido festoso, con quel grido di guerra, che tante volte alzò sul campo della strage e della gloria, quando scagliavasi impetuoso nella mischia ardente in compagnia di Zabiela, di Gamalea, e di quello stesso Cocciu-bei, or suo accusatore.

La chiara aurora imporpora l’oriente; le valli, i colli, i piani rinascono. Le cime de’ boschi s’indorano; il corso dei fiumi biancheggia. Dappertutto penetra il soave brulichío mattutino. L’uomo si desta....

Maria tuttora dorme, e dormendo sogna dolcemente. Tutto a un tratto sente, in mezzo al sonno, un passo che s’avanza verso il letto, e una mano che le tocca i piedi. Apre gli occhi, ma tosto li richiude abbagliati dal gaio riverbero del sol nascente. Stende le bianche braccia sorridendo, e con voce amorosa bisbiglia: “Sei tu, Mazeppa?”

Ma non è Mazeppa che risponde.... Dio! Esterrefatta Maria guarda intorno e vede.... vede sua madre!

La madre. Taci, taci. Non ci perdere ambedue. Mi introdussi qui furtivamente col favor delle tenebre per chiederti una grazia. Oggi è il supplizio. Tu sola puoi disarmar Mazeppa. Salva il padre.

La figlia. Che padre? Che supplizio?

La madre. Come? Non sai?... Eppure non vivi in un deserto. Vivi in un palazzo. Dovresti sapere che Mazeppa può tutto; che egli è vendicativo; che lo Zar gli crede.... Ma comprendo; tu sacrifichi a Mazeppa la propria famiglia; tu dormi, allorchè l’atroce sentenza si legge, allorchè si affila la bipenne, allorchè il carnefice l’alza sopra tuo padre! Ahi che siamo ormai estranee l’una all’altra!... Ravvediti, figlia diletta! Diletta Maria, vola, próstrati ai piedi suoi, salva il genitore, sii il nostro angelo tutelare; un tuo detto molcerà quel cuore, un tuo sguardo spezzerà la scure.... Affréttati, piangi, scongiura; l’etmanno non ti ributterà.... per lui obliasti l’onore, i genitori, Dio medesimo.

La figlia. Che odo!... Il padre.... Mazeppa.... il supplizio.... mia madre è qui, in questo castello; mia madre m’implora.... no, o io deliro, o è un sogno....

La madre. No, in nome di Dio, non è un sogno, non è una illusione.... Come non sai ancora che tuo padre consunto di rabbia, non potendo tollerare il disonore della figlia, dinunziò l’etmanno allo Zar, rivelò frai tormenti mille progetti ambiziosi, mille insane chimere; — che, martire della verità, se Dio non lo libera miracolosamente, egli oggi verrà giustiziato per comando del suo nemico, in presenza di tutto l’esercito?... — che frattanto egli sta rinchiuso nella torre del castello?

La figlia. Dio, Dio mio!... oggi!... ahi, misero padre!...

E la fanciulla ricade sul letto fredda come un cadavere.

La piazza brulica di gente. Le lance scintillano. Il tamburo rimbomba. I cavalieri galoppano; i fantaccini marciano in ordine. La moltitudine ondeggia e serpeggia; i cuori palpitano.

Il boia, aspettando la vittima, passeggia sul palco infame e scherza. Ora afferra la scure pesante, e la fa saltellare fralle sue mani, ora motteggia e ride colla giubilante plebe. Le strida delle donne, gli alterchi, le beffe, il mormorío dappertutto risuonano.... Ma un alto clamore ergesi al cielo; quindi a quello succede un profondo silenzio. Appena un calpestio di cavalli s’ode di quando in quando. Circondato di guardie, s’avanza cogli altri anziani il potente etmanno sopra un corsiero nero.... Sulla strada di Chieff ecco apparire una carretta. Tutti gli occhi si volgono curiosi verso quella.

In quella carretta, sta seduto immoto, rassegnato, riconciliato con Dio, confortato dalla fede, l’innocente Cocciu-bei. Accanto a lui è Iscra, suo compagno, non men di lui sereno e tranquillo.

La carretta s’arresta. Il fumo dell’incenso monta alle nubi. I preti cantano in coro il vespro dei morti. Il popolo prega a bassa voce per il riposo di quelli sventurati, i quali pregano per il bene dei loro persecutori. Essi scendono dalla carretta, e salgono sul palco. Cocciu-bei fa il segno della croce, e pone la testa sul ceppo. La moltitudine tace come una adunanza di ombre e di spettri. La bipenne balena, sibila; una testa sbalza. Tutto il campo geme. Una altra testa ruzzola appresso a quella sull’erba sanguinosa. Il carnefice, contento della sua destrezza, ghermisce quelle teste pei capelli, e le scuote con mano nerboruta davanti al popolo.

Il supplizio è compito. La folla indifferente si dirada, si disperde, e già ciascuno torna al proprio tetto parlando dei propri interessi. Il campo poco a poco si fa vuoto. In questo mentre due donne, spossate dalla stanchezza, cosperse di polvere, arrivano, inorridite, sul teatro dell’esecuzione. “È troppo tardi,” dice loro un passeggero accennando al patibolo che si andava scomponendo.

Un sacerdote in abito nero orava lì vicino mentre due Cosacchi ponevano un feretro di quercia sopra un carro.

Mazeppa, cogitabondo e mesto, si separa dalla sua comitiva, e s’allontana dal campo maledetto. L’abbandono in che si trova lo sgomenta. Nessuno gli viene incontro; il cavallo spumante lo riconduce al palazzo. Entra. “Dov’è Maria?” è la sua prima parola. I servi tremanti esitano a rispondere.... Colpito di stupore, Mazeppa passa alla stanza di Maria; la trova vuota e muta. Scende nel giardino; erra qua e là fra i cespugli, nel boschetto ombroso, lungo il vivaio; non scopre vestigio della sua diletta. “È fuggita!” Chiama a sè i fedeli servitori, le agili guardie. Accorrono al cenno del signore. I cavalli nitriscono. Suona intorno l’ordine di partire a galoppo, e immantinente volano in ogni direzione.

Passa il tempo prezioso, e Maria non torna. Nessuno ha udito, nessuno ha veduto dove essa sia andata. Mazeppa digrigna i denti dalla rabbia. I suoi servi tremano e tacciono. Gonfio il cuore d’amarissima angoscia, l’etmanno si rinchiude nella sua stanza. Sta tutta la notte accanto al letto della bella, senza chiuder occhio, infranto dal cordoglio e dal rimorso. La mattina le guardie ricompariscono l’una dopo l’altra. I cavalli appena possono più reggersi in gambe; le cinghie, le unghie, le briglie, le selle sono rotte, lacerate, intrise di spuma e di sangue; ma nessun messo reca notizie di Maria.

La traccia di lei sparve come un raggio nell’aere, e sua madre terminò nell’esilio e nella solitudine la misera esistenza.


  1. Una delle chiese di Chieff.

Note

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