< Questioni urgenti (d'Azeglio)
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XV.


L’Italia per un privilegio concesso a lei sola dalla Provvidenza, fra tutte le nazioni della terra, entra oggi nella sua quarta éra di civiltà. Dopo l’Etrusca e la Romana, dopo quella della repubblica del medio evo, quest’antico tronco della terra latina che da due o tre secoli ergeva i suoi rami aridi e sfrondati, oggi ad un tratto rinverdisce e mette foglie, fiori e frutti tutt’in un tempo, mentre son pochi anni, eletti spiriti delle nazioni vicine lo giudicavano disseccato per sempre.

Oggi l’Italia entra nella quarta sua gioventù, salutata dall’applauso del mondo, applauso che sarebbe unanime se non lo negassero, e non lo volgessero in maledizione, i due lontani e tradizionali eredi della antica potenza di Roma: l’Imperatore d’Austria, ed il Papa.

Su quali basi si fonda la civiltà dell’Italia nuova?

Si fonda forse sui due antichi emblemi delle più vecchie e più fatali tirannidi, la spada ed il pastorale?

No! Si fonda sul diritto comune; sulla vera quanto nuova interpretazione del diritto cristiano che riconosce tutti gli uomini eguali davanti al codice politico e civile, come li tiene eguali il Vangelo davanti al codice religioso e morale. L’Italia nuova si fonda sulla responsabilità del Governo; sull’indipendenza de’ caratteri, delle opinioni; sull’emulazione de’ partiti, sull’onestà e pubblicità dell’amministrazione, sulla libera iniziativa lasciata a tutte le forze della nazione, a tutte le intelligenze, alle loro intraprese, alle loro creazioni, alle loro scoperte; si fonda sulla libera diffusione delle idee, sulle rapide comunicazioni, sulla libertà de’ commerci, sul vapore, sulla stampa, sull’elettricità ec, ec., che cosa ha che fare tutto questo colle memorie dell’antico Mondo Romano, il quale non vedeva altra base alla sua grandezza fuori della schiavitù de’ popoli? Qual forza, qual valore prenderanno i principii moderni a vedersi racchiusi nella cinta di Belisario, e come potrebbero trovarvisi a casa loro?

Chi ha proclamato in quest’occasione Roma capitale d’Italia ha speculato sull’effetto rettorico-classico che produce ancora quel nome sulle moltitudini, le quali in fatto di coltura intellettuale non son venute più in qua del Campidoglio. Ha stimato che nessuno avrebbe forse osato prendere ad esaminare il valore di una simile idea; ma io oserò sempre, e molti altri con me oseranno discutere gli affari del paese: e se io mi sento in qualche modo legato dal pensiero degli amici, non mi sento però punto sbigottito dalla maestà della Rupe Tarpea. L’Italia ed il mondo hanno finalmente diritto di domandare se ha da durare eternamente questo Campidoglio. Hanno diritto di presentare i loro nuovi titoli e domandare se l’eguaglianza avanti la legge, la legittimità fondata sul consenso de’ popoli, se il sistema delle rappresentanze nazionali, della pubblicità degli atti amministrativi ec. ec., non valga in materia politica tutta l’antica sapienza romana; se il rispetto reciproco delle nazioni fra loro, il fiorire de’ commerci, delle industrie, e del ben’essere generale non valga i trionfi che ingombravano di schiavi la Via Sacra, e che pel vinto terminavano colle tenebrose torture del carcere Mamertino; se finalmente alle moli degl’anfiteatri, ed al diletto di veder sull’arena palpitare le membra de Reziarii, de’ bestiarii ec. ec. non sia preferibile lo spettacolo di una locomotiva che trasporta colla rapidità del vento una massa d’uomini tutti eguali, tutti liberi, bastante a popolare un paese?

Abbiamo una volta il coraggio d’accorgerci e di persuaderci che siamo qualche cosa anche noi, e che senza troppa modestia possiamo osare di farci da noi un nuovo Campidoglio che nella Storia de’ secoli, non avrà nulla da invidiare alla gloria dell’antico.

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