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XVII.
Per ben considerare l’importanza vera di questa questione, come per calmare desideri e timori esagerati, v’è poi da riflettere che in un paese come l’Italia essa si presenta sotto un aspetto ben diverso di quello che ha in altri paesi.
L’Italia non è un paese come un altro. Anche in questo la patria nostra ha qualche cosa d’eccezionale; sappiamone profittare. L’Italia ha il privilegio di non aver bisogno di capitale. Perchè una delle città Italiane sarà scelta a sede del Governo, ciò non vorrà dire che le altre siano ridotte allo stato di città secondarie.
Genova è stata riunita al Piemonte nel 15. Chi può dire che in 45 anni abbia mai assunto aspetto inferiore a quello di Torino? Chi venisse dagl’Antipodi, ignorasse la geografia, e fosse condotto a Torino poi a Genova, saprebbe egli indovinare quale delle due è la capitale? Lo stesso fu di Milano. Sotto il dominio austriaco, il quale certamente non faceva nè sacrifizii nè sforzi in suo favore, non si mantenne forse nello splendore di capitale? E chi potrà supporre che quelle fra le altre città Italiane le quali per essenza propria tengono da molto tempo il grado e godono i vantaggi di città capitali, abbiano ad un tratto a decadere perchè prive di una Corte e di un Corpo Diplomatico e di alcune Segreterie?
Io considero come una grandissima fortuna per l’Italia il trovarsi materialmente formata in modo che la popolazione ricca, colta ed indipendente non abbia motivi d’agglomerarsi tutta su un medesimo punto. Non ho mai veduto i vantaggi delle grandi capitali, e mi pare di vederne i molti inconvenienti.
Pensiamo invece quanto grande sarà la coltura, la ricchezza, il ben essere, la civiltà distribuita egualmente sull’intera Penisola dal fiorire di tante città, che tutte nel medio evo ebbero colla libertà il doppio della loro attuale popolazione, e che colla libertà la riacquisteranno presto con tutti i miglioramenti materiali portati dalla civiltà presente.
Io penso che non passeranno neppur pochi anni senza che tutti s’avvedano quanto sia vana questa questione della capitale, perchè di capitali ne sarà piena l’Italia.
Vi sarà la capitale militare, la commerciale, l’artistica, l’erudita, la religiosa, l’industriale ec. ec. Qualunque città sia scelta per capitale politica, qual danno potrà venirne alle altre? tanto più finite che siano e rese facili le comunicazioni delle ferrovie? E qual tremenda rovina invece, se il trasportare ora il Governo, inducesse in esso elementi di debolezza e di dissoluzione? Per qual motivo potrebbesi indurre chi è a Genova, a Milano, a Torino a lasciare le proprie sedi per andare a stiparsi nella città dove siede il Governo? Ci correrà qualche impiegato, qualche cacciatore d’impieghi al più, e vi concorreranno i membri del Parlamento durante le Sessioni. E tuttociò è poi un bene così grande, un vantaggio così enorme da muovere gelosia, ed invidia? Non dimentichiamo che in progresso l’azione del Governo è per diminuire e non per crescere. Che è sperabile vogliano finalmente persuadersi gli Italiani che i cittadini non devon tenerlo in sempiterno come la nutrice comune, ma debbono imparare ad esempio de’ paesi veramente liberi a farsi uno stato indipendente da esso. Questo nuovo sentire renderà anche meno sensibile la piccola differenza in favore della sede del Governo.
Tutta la questione dunque spogliata di quella fantasmagoria che si annette coll’idea di Capitale in altri paesi, si riduce per l’Italia alla semplice idea del dove convenga fissare la sede del Governo; e questa non è vana questione davvero!
L’importante poi, in conclusione, è che rinunziando a misere gelosie per meschini quanto malintesi interessi, gl’Italiani procurino d’accordo di collocare il Governo, come già dissi, in un ambiente sano, ove si mantenga in quello stato di fortezza virile, che lo ha reso sin qui incolume dalla corruzione, sicuro contro le minacce della fortuna, saldo contro le sue seduzioni, e possa compiere quella grand’opera nazionale che è stata condotta oramai tanto vicina al suo termine.
I miei lettori si sono avvezzati a perdonarmi i paragoni volgari. Mi perdonino dunque anche questo: — Il vin buono s’ha a mettere in una botte sana. Se sa di muffa, lo guasta. —
A questo punto mi volgo al Lettore, e gli domando se in cuor suo egli non ha già pensata la frase seguente: È un Piemontese che parla. Capisco: vuole la Capitale a Torino!
Se tale è il pensiero del Lettore, mi permetta di dirgli che tale non è il pensier mio.
Quando l’esercito Piemontese passò il Ticino nel 1848, e prima ancora quando in Piemonte sorsero voci per proclamare il diritto dell’Italia all’indipendenza, nessuno di noi ignorava che la riuscita della nostra impresa doveva, quanto agl’interessi nostri di provincia, esserci dannosa.
Ma sapevamo altresì essere bello ed onorato atto il sacrificare qualchecosa degli interessi materiali, per procurare all’intera nazione quella forza che il Piemonte non poteva avere da sè, onde far rispettare il suolo della Penisola e l’onore del sangue latino.
Fin d’allora eravamo persuasi che riunita l’Italia in un solo Stato, il Governo probabilmente non avrebbe più la sua sede in Torino.
Credo d’interpretare rettamente il sentire dei Piemontesi su questa questione, dicendo che tutti accettiamo ora questo fatto senza opposizione ove sia giudicato utile all’Italia.
Desideriamo soltanto che tutti al pari di noi si spoglino d’ogni spirito municipale, e si risolva senza passione ciò che vorrà il vantaggio comune.
Qualunque sia la scelta, io penso però che nulla debba innovarsi finchè non sarà compiuta l’unificazione d’Italia; e quando alcuni anni d’uso di vita politica avranno temprati i caratteri, e avvezzata la popolazione ad affrontare le sue crisi con calma, e ad uscirne colla prudenza, e mediante l’esercizio delle virtù cittadine; quando gl’Italiani avranno imparato a far prevalere le loro opinioni mediante lotte parlamentari e legali, senza ricorrere a violenze od a mezzi settari: — sarà allora tempo d’occuparsene, ed il cambiamento potrà accadere senza danno.
È inutile intanto estendersi su quest’argomento. Mi sia tuttavia permesso d’aggiungere, che a parer mio come sede del Governo la città preferibile a tutte la stimo Firenze.
Firenze fu il centro dell’ultima civiltà italiana del medio evo.
È, come fu sempre, centro della lingua; e la lingua è fra i principali vincoli che riuniscono e mantengono vive le nazionalità.
È posta a giusta distanza dalle due estremità della penisola.
È nè troppo esposta ad un assalto dal mare, nè da esso troppo lontana: ed opere idrauliche sull’Arno ve la potrebbero avvicinare di più.
È in buon clima, protetta da un assalto dal nord dalle due linee, quella del Po e dell’Appennino, rafforzata ora dai lavori eseguiti a Bologna.
Facile a fortificarsi, volendo, con forti separati e fuor del tiro dalla sua cerchia.
È inoltre popolata d’uomini ingegnosi, temperati, civili; la popolazione in Toscana è generalmente onesta, non è faziosa; si viene rapidamente correggendo di que’ difetti che forse ebbe in passato: e quando vi si sia generalizzato l’uso della vita politica, a Firenze il Governo potrebbe trovare quel salubre e sicuro ambiente che dicemmo esser per lui la più importante delle condizioni.
Ma un’altra ragione si adduce in favore di Roma. Scegliendola a sede del Governo, dicono, tutte l’altre città si inchineranno, nessuna oserà mettersi avanti, e sarà tolto di mezzo questo pomo di discordia.
Io non credo punto a quest’ossequio generale; ma credo, ed anzi vedo ripetersi un fatto frequentissimo in ogni rivoluzione: il partito di chi più grida e più si dimena, benchè in minorità, riesce sempre per qualche tempo a metter in soggezione quelli che gridano e s’agitano meno. L’importante è di trovare que’ sonori vocaboli che colpiscono le moltitudini, di gridarli per le piazze e pei giornali, è di chiamar Codino chi ne mettesse in dubbio il valore.
Tutta questa fantasmagoria svanisce presto, come accadde al Milione di Fucili, ed al Milione di Soldati, ma poco importa quando sia ottenuta l’agitazione nel senso che si voleva. Chi n’è professore, sa benissimo che una certa specie di mondo s’agita non colle idee sane, ma colle fantastiche.
Chi scambiasse il silenzio momentaneo coll’ossequio, potrebbe cadere in gravi errori. L’Italia ha sempre subíta la fatalità d’esser poco studiata, e mi pare che questa fatalità ancora non cessi. Chi la conosce, e conosce in fondo i sentimenti delle popolazioni, sa che fra Napoli e Roma, verbigrazia, v’è ruggine antica e radicale, per cui ho l’idea che in cuor suo ogni Napoletano vorrebbe veder Capitale dello stato San Marino piuttosto che Roma.
Il problema di tenere Napoli non è indifferente ora, e merita che vi si pensi.
L’antico Stato papale non è in condizioni diverse. È cosa ancor più notoria la poco felice disposizione di Bologna e d’altre città dello Stato per Roma, e bisogna non aver veduto mai que’ paesi per immaginare che s’inchinino con ossequio all’idea d’averla di nuovo per Capitale.
I Toscani hanno ingegno sottile, sono penetrativi assai, e le bolle di sapone sanno distinguerle a colpo d’occhio. Quanto all’Italia superiore, è troppo del mondo moderno per avere una gran venerazione ai fantasmi dell’antichità; e se togliamo quell’intimo motore piantato in cuore della maggior parte degl’Italiani, il gusto di far dispetto ai preti, credo che l’idea della sede del Governo posta a Roma paia poco desiderabile a chiunque conosce nella loro verità gli elementi de’ quali è composta.
Se il Papa non abbandonerà Roma, e se vi rimarrà anche soltanto come pontefice, confesso non giungere a comprendere come si potrebbe tenervi egualmente radunati i tre poteri dello Stato. Non sarebb’egli fra i possibili che mentre al Campidoglio o al Quirinale si pubblicasse una legge votata dal Parlamento e sancita colla firma della Corona, al Vaticano si vedesse una scomunica affissa alle porte della Basilica di San Pietro? E tutto ciò non potrebbe forse condurre ad una serie di scandali indecorosi, che nuocerebbero egualmente alla dignità regia, come alla dignità sacerdotale?
Ma dopo tutto il già detto, si presenta una nuova riflessione abbastanza grave.
A Roma, per ora, c’è il Papa! —